IL VILLAGGIO DOVE E’ RACCOLTA LA PIU’ IMPORTANTE FAMIGLIA DELLA TR IBU’ TA’ AMRA A casa di Ibrahim braccato nella chiesa
venerdì 10 maggio 2002 La Stampa 0 commenti
                
BETLEMME 
TE’ alla menta, la foto dello sceicco Yassin e di molti « martiri» 
sulle 
pareti, il velo sul viso della padrona di casa, bambini che escono da 
tutte 
le parti, l'orgoglio della tribù nel volto dei maschi, la sala di 
preghiera 
con la foto della Mecca per ricordo. Gli Abayat hanno ben 8 membri 
della 
loro famiglia beduina dentro la Chiesa: la storia vera di Betlemme 
non è 
solo nella Piazza della Mangiatoia, e neppure nella basilica stessa 
della 
Natività , né sotto i tank che sollevano da 36 giorni la polvere della 
città 
dove è nato Cristo, mentre gli armati palestinesi occupano la Chiesa. 
Per 
trovarla nelle sue radici, bisogna avventurarsi in un'ora di 
coprifuoco 
verso un quartiere in collina, pietroso e punteggiato di case, da cui 
si 
vede la chiesa dopo gli ulivi e oltre i pascoli delle capre. La 
chiameremo 
Abayatland, dal nome della famiglia beduina degli Abayat, la più 
prominente 
famiglia della tribù Ta'amra, pastorale, affaristica e soprattutto 
guerriera. Questa famiglia ha otto membri, padri, figli, zii, cugini 
asserragliati dentro la Chiesa della Natività . La cronista si 
stropiccia gli 
occhi quando sente il numero. Otto, tutti dei vostri? Si, quattro 
probabilmente nella lista dei tredici irriducibili che fino a poche 
ore fa 
avrebbero dovuto essere esiliati in Italia e che invece trovano 
difficile 
destinazione, e gli altri nella lista dei 26 che ad ogni momento, se 
si 
perfeziona l'accordo, dovrebbero uscire. 
Entriamo a Betlemme nel primo pomeriggio, in pieno coprifuoco. 
Verifiche e 
domande al check point: varie jeep e un carro armato sono stazionati 
là 
vicino, sappiamo che sulla piazza ce ne sono due e che tutto 
l'apparato 
militare era in smobilitazione finchè c'è stato il contrordine. 
Adesso, 
sola, la nostra macchina si avvia giù sul lato destro della Chiesa, 
un carro 
armato rolla proprio dietro di noi, e siamo in due: noi e il carro 
armato 
dietro, per un bel pezzo. Piano, senza scatti, con la targa italiana 
che 
fornisce una certa consolazione. Poi, l'incontro con il nostro 
bravissimo 
stringer palestinese e via su e giù per le stradine: i bambini appena 
fuori 
dalla città vecchia non osservano il coprifuoco, giocano a pallone, e 
i 
vecchi giocano a shesh besh sugli scalini di casa. Altri, non se ne 
vedono. 
Ma nell'Abayatland è diverso. Qui regnano le regole della famiglia, 
ricca, 
diramata, che consta di migliaia di persone. Quando arriviamo, gli 
Abayat 
stanno fuori, all'aria, parlando dei loro otto familiari chiusi in 
chiesa, 
di cui alcuni forse andranno in Europa. « Quando saranno in Italia, li 
aiuti» , mi dicono. Parlano con toni molto duri di Arafat, che secondo 
loro 
li ha traditi; e degli israeliani, con odio. Gli attentati 
terroristi, 
davvero sembrano loro il rapporto più naturale con quel popolo « di 
occupanti, di oppressori, che ci prende la nostra terra» . La terra 
davanti 
alla Moschea è a ulivi, le capre sono condotte dai bambini della 
famiglia. 
Molti bambini, moltissime capre. Molte case, molta terra. Ce lo 
confermano 
orgogliosi. Davanti alla moschea un gruppo di giovani uomini su cui 
gli 
abiti e l'atteggiamento, i baffi e le magliette col coccodrillo, la 
gommina 
e la kefiah mischiano i segni della modernità e dell'arcaicità . Sono 
gentili 
e accoglienti. Ci mostrano a pochi metri un'auto sventrata: un 
elicottero 
israeliano vi freddò un altro Abayat, Hussein, 37 anni, nel novembre, 
con un 
missile. Accadde nel quartiere di Beit Sahur. L'auto è stata portata 
a casa, 
ora è come un monumento. Era accusato di essere un capo dei Tanzim, 
con 
molto sangue sulle mani. 
Tutta la famiglia Abayat lo è . Suo fratello Ibrahim Mohammed Salem, 
40 anni, 
padrone della casa in cui entriamo, suo figlio Mohammed Ibrahim, 19 
anni, 
suo cugino Naji di 29 anni, suo cugino Aziz Halil Mohammed Abayat 
Jubran, un 
altro Ibrahim Musa Abayat (Abu Galif), un preminente operativo dei 
Tanzim 
accusato di avere ucciso in un agguato l'ufficiale Yehuda Edri e una 
donna, 
e poi di aver rapito e ucciso un architetto americano. Tutti questi, 
quasi 
sicuramente, sono nella lista dei 13. Gli altri, nella lista di 
quelli che 
devono partire per Gaza. Ibrahim, il padrone di casa, secondo gli 
israeliani 
ha a che fare, e sempre in ruoli importanti, con la cellula che 
avrebbe 
gestito la zona di Beit Jalla usandola come una postazione armata 
contro 
Gilo, insistendo più di un anno. E' accusato di avere organizzato 
attacchi 
terroristi di Hamas. Gli altri non sono da meno, ma Ibrahim, che era 
già 
stato in un carcere israeliano due anni negli anni 90, è un grande 
capo di 
rispetto, grande barba, grande corporatura, 25 chili - mi dice la 
famiglia - 
persi nella cattività della chiesa. Sia le foto di Hussein che quelle 
dei 
suoi parenti, specie Ibrahim, sono di gente forte, baffuta, dura, 
armata di 
kalashnikov. La loro appartenenza è parte Fatah, parte Hamas. 
Il diciannovenne Mohammed, una faccia da adolescente ma un 
curriculum, 
secondo gli israeliani, di agguati e attentati vari, lo vediamo nella 
foto 
tessera che ci mostra la madre appena salite le scale di casa; è 
commossa, 
le si vedono solo gli occhi di donna giovane, come finestre verde 
scuro fra 
le pieghe del velo nero. Il suo nome è Aisha, prima che me ne vada mi 
porta 
lontano dagli uomini, nella sala di preghiera della casa, si solleva 
il 
velo, ha una piccola faccia bidimensionale da ritratto medievale, una 
madonna che durante il colloquio con i maschi sfoderava toni da 
comizio: ma 
adesso è giovane come i suoi 37 anni, e a gesti, perché il traduttore 
non 
può entrare, mi dice che non dorme più , che piange, che vuole almeno 
rivedere il marito e il figlio. Si indica gli occhi, fa il segno 
delle 
lacrime. La circondano parte dei figli: ne ha tre maschi e cinque 
femmine di 
cui una incinta. 
Perché suo marito è andato con tutto il resto della famiglia dentro 
la 
chiesa? Lei alza le spalle: sembrava naturale, pensavano che i carri 
armati 
se ne sarebbero andati subito, magari dopo un paio di giorni, chi 
l'avrebbe 
detto che avrebbero insistito tanto. Forse davvero non è stata tanto 
una 
buona idea. L'Italia non li vuole, dice, perché gli israeliani li 
mettono 
su, e invece sono brave persone anche se sono doverosamente, spiega 
con 
passione, molto militanti, molto religiosi, membri di Iz ha Din al 
Kassam. 
Ovvero, il braccio armato di Hamas. Insieme telefoniamo al marito 
dentro la 
chiesa: da ieri hanno mangiato un po’ meglio, in attesa degli eventi, 
ma non 
si sa nulla, niente è chiaro, fa freddo dentro la chiesa, non si 
dorme, il 
figlio sta bene. No, non si sa quando si esce, informazioni non ne 
abbiamo, 
le dice il marito, si parla della Grecia, della Spagna, dell'Italia. 
Visti 
da questa casa sembrano luoghi della fantasia, e così certo pensa 
anche 
Aisha che dice « Italia» come direbbe « la Luna» , e forse proprio in 
questa 
inesistenza trova la consolazione che le manca in questo momento: se 
sono 
luoghi così lontani, forse non ci si può arrivare, forse i suoi 
tornano a 
casa da tutti quei bambini. 
A casa si è indetto il digiuno religioso il martedì e il giovedi, per 
fare 
compagnia spirituale ai rinchiusi. La carne è stata eliminata. Si 
prega 
molto. Fra i bimbi una sola, dodicenne, di nome Doha, già col velo in 
testa, 
vuole studiare da dottore. Hanna di 16 vuole dedicarsi al Corano e il 
piccolo Sohai, 10 anni, anche lui vuole essere un maestro. La vita è 
piccola 
e grande come i millenni, qui. I bambini piccoli hanno vestiti dai 
colori 
beduini. Chiedo a un altro cugino Wahed, che è il vicepresidente 
della 
famiglia Abayat, un ruolo molto importante, se tutta la famiglia 
conosce 
l'uso delle armi: i beduini sono fieri, mi risponde. Aisha racconta 
che per 
loro è del tutto naturale essere militanti: « Sempre mio marito è 
stato un 
fiero militante antisraeliano, dal momento che ci tolgono la libertà , 
che ci 
rubano la terra. E gli attentati terroristici, sono loro a volerseli, 
il 
colpevole è Sharon. Anzi: che ci vada lui in esilio. E Arafat, che 
difenda 
il suo popolo invece di consegnarlo agli israeliani. La pace? Il 
Corano non 
parla mai di due Stati per due popoli» . Wahed è più possibilista: 
« Quando la 
pace verrà , noi vi parteciperemo di buon grado» . 
Mentre parla al telefono col marito, Aisha tiene un tono di estrema 
confidenza, conversano a lungo, il marito racconta particolari di 
vita. 
Tutto avviene in chiesa, niente doccia, niente ricambi, cibo 
pochissimo, il 
bagno di là da un cortile che è molto pericoloso attraversare. E poi, 
una 
chiesa non è per loro un luogo familiare: « Anche se i preti sono 
stati come 
fratelli» . Aisha racconta che si conobbero tanti anni fa quando i 
loro 
genitori li destinarono l'uno all'altro. Erano vicini di casa. « Sono 
corsa 
alla piazza quando sembrava che stessero per uscire. I soldati non ci 
hanno 
lasciato avvicinare, ma io voglio assolutamente vedere come stanno 
mio 
marito e mio figlio dopo 36 giorni in Chiesa. Questo dovrebbero 
capirlo, in 
ogni caso» . Preferirebbe una prigione israeliana, vicina, o la 
partenza per 
l'Italia, o per la Spagna? Certo, niente di tutto questo, risponde. 
Ma sia 
la moglie di Ibrahim sia Wahed sono sicuri, forse perché qualcuno 
glielo ha 
suggerito, che di certo in mano agli israeliani i loro familiari 
verrebbero 
uccisi, e che comunque non avrebbero diritto a un avvocato. C'è in 
loro una 
sfiducia totale nell'idea di dialogo, una sofferenza primaria e anche 
un'astuzia evidente che si esprime molto bene nella frase con cui 
Aisha 
risponde alla domanda su come potrebbe sopportare una lunga 
lontananza: 
« Pregherò Allah che mi dia la pazienza. E comunque, non sarà tanto 
lunga la 
separazione. Torneranno presto, ce l'hanno promesso» . 
            