Il viaggio della pace di Netanyahu negli Usa. Un progetto ambizioso da Gaza all’Indonesia

Il Giornale, 03 luglio 2025
Gaza è in queste ore una sfinge che interroga il mondo più impietosamente del solito: là, nella possibilità restauratasi in queste ore di un accordo, c’è lo scrigno del futuro, dalle decisioni delle giornate, delle ore a venire, dipende se il Medio Oriente, il mondo possano svoltare dalla guerra dei più di 600 giorni: l’eliminazione totale o parziale delle strutture nucleari e del disegno malefico degli Ayatollah che scatenò il 7 ottobre e poi il resto cerca una conclusione. Dunque Netanyahu parte domenica per Washington, le dichiarazioni sue e di Trump si incastrano, si inanellano, si contraddicono e si ricongiungono: Trump dice ieri che Israele è d’accordo per una tregua, che sarà bene che Hamas accetti la proposta Witkoff, per ora 10 rapiti vivi e 8 corpi, 60 giorni di tregua, perché qualsiasi altra, scrive in lettere capitali sarà molto peggio. Hamas non risponde ancora, si capisce che vuole ottenere tramite Qatar e Egitto, i mallevadori, che la tregua sia definitiva. Da Israele fluisce una seminotizia... potrebbe restare tregua e non pace, ma potrebbe essere sine die. Netanyahu si muove con cautela, non è assediato all’interno, il suo successo recente non lascia spazi né a sinistra (Lapi) né a destra (Ben Gvir) per aggressioni politiche: parte e sa che ha in mano una pietra preziosa, si chiama pace di dimensioni mai viste, l’ha conquistata con le unghie e coi denti, ora niente azzardi, Trump è corso in aiuto contro l’Iran in uno scontro spettacolare, che non è ancora concluso.
Lavora per sé e per Israele per i libri di storia. Trump e Israele trattano con la Siria e col Libano per arrivare un’alleanza organica, occhieggiano persino all’Indonesia, il Paese musulmano con 240 milioni di abitanti, aspettano l’Arabia Saudita, la regina del patto di Abramo del futuro, che ora vuole la sconfitta di Hamas. Israele, e Trump lo sa, non può articolare nessun patto davvero significativo senza raggiungere due scopi: i rapiti a casa, e la sconfitta di Hamas. Sconfitta può significare tante cose: Ron Dermer che sott’acqua dopo l’aiuto americano in Iran, disegna il prossimo passo è già al lavoro. Netanyahu ha affermato anche ieri che i due obiettivi della guerra a Gaza sono sempre quelli. Hamas è di fatto già a pezzi, come il capo di Stati Maggiore Eyal Zamir ha detto, non controlla il territorio priva com’è della leadership ormai eliminata, Gaza è distrutta, la metà dei suoi sono stati uccisi, la rapina degli aiuti umanitari è stata smascherato, i suoi padroni e finanziatori, Iran, Hezbollah, Siria di Assad si sono disseccati in battaglia.
Come dice un analista israeliano, Amit Segal, Israele può accettare purché l’esercito resti sul bordo a proteggere le comunità in pericolo e sullo Tzir Filadelfia contro il contrabbando dall’Egitto; può espellere i residui della leadership di Hamas; può ottenere un cambio di regime; mettere nell’accordo il permesso di reagire militarmente per prevenire attività terroristiche. Si capisce bene che è un accomodamento, ma due elementi di realismo: restare legati agli USA, e tener conto delle infinite cautele comunque, giorno per giorno, indotte dalla presenza dei rapiti nelle gallerie e nelle case trasformate in prigioni. Ogni ragazzo israeliano che combatte a Khan Yunes come a Sajaia, come Janiv MIchailovich di 19 anni che ieri è stato ucciso da eroe in battaglia, ha dentro di sé un coraggio da leone e anche il sogno di liberare un rapito. Affronta la morte nelle gallerie per quello. Il dilemma può sciogliersi in un disegno vasto come quello che si prospetta, e comprende dai rapiti all’Indonesia, quella pace larga per ottenere la quale domenica Netanyahu va all’aeroporto. Intanto, continuano le trattative.