IL VECCHIO LEADER ERA IN GRAVE DIFFICOLTA’ , AVVERSATO ANCHE DAI SUOI FEDELISSIMI La sentenza dell’ Aja « riabilita» Arafat E’ riuscito a r iaggregare le fazioni senza cedere nulla del suo potere
lunedì 12 luglio 2004 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
DOPO la sentenza dell’ Aja, l’ attentato di Tel Aviv. Ieri alla tv
palestinese in un dibattito si ipotizzava che, poiché il mondo mostra in
fondo di capire il problema, « è tempo di pensare a una politica migliore»
che non sia quella degli attentati. Ma Arafat, immerso in consultazioni con
avvocati internazionali per trasformare la sentenza in risoluzioni dell’ Onu
e intento a raccogliere le congratulazioni di mezzo mondo, non ha rinunciato
a lasciarsi andare alla teoria del complotto: Israele si è organizzato da
solo l’ attentato per contrapporlo alla risoluzione dell’ Aja, ha detto, così
come ha fatto altre volte, a Beit Lid (decine di vittime sotto i 20 anni,
nel 1996) o quando è stato assassinato il ministro Rehavam Ze’ evi...
La verità è che il vecchio raì ss sta recuperando a passi da gigante il
centro della scena. Prestigiatore che può contare su un pubblico vasto e
fedele, lo fa sia con armi diplomatiche sia gettando uno sguardo quanto meno
distratto verso le organizzazioni terroristiche sempre in gara fra di loro
per restare a galla in tempi duri. Era in profonda difficoltà : la sua
marginalità rispetto ai processi decisionali era diventata evidente, diffusa
la convinzione che il tempo della sua leadership si fosse concluso. Khaled
Yazii, il capo del cerimoniale, ha dichiarato recentemente: « Arafat se ne
dovrebbe essere andato da tempo. E’ il simbolo della battaglia palestinese,
ma è anche un simbolo di sconfitta» . Il suo migliore amico sull’ arena
internazionale, Terje Larsen, inviato dell’ Onu, tre giorni fa aveva rivelato
alla radio israeliana che non rivolge più la parola al raì ss dal settembre
scorso, proprio perché non lascia passare la riforma.
Solo il 7 luglio il Quartetto, incontrandolo alla Muqata gli aveva chiesto
con insistenza di rinunciare a un po’ di potere e di consentire
l’ unificazione delle sue milizie, una quindicina, pena il taglio dei fondi.
In varie riunioni il capo dei Servizi di Sicurezza egiziano Omar Suleiman
gli aveva intimato di fare posto a un ordine che consentisse di effettuare
senza disastri il cambio della guardia a Gaza, dopo il ritiro delle truppe
di Sharon. Arafat per ripararsi copriva il suo gioco dietro una pretesa
unità di popolo, richiedendo la presenza di Hamas nella trattativa per il
potere a Gaza, proprio quello che nè Israele, nè l’ Egitto, nè gli Usa
possono accettare. Hamas a sua volta recentemente aveva preso a dichiarare
fedeltà ad Arafat, mentre nei mesi scorsi contatti erano stati ristabiliti
alla Muqata con le varie fazioni che avevano defezionato dal Fatah al tempo
del processo di pace.
Persino le fazioni di Jibril Rajoub, che una volta aveva dichiarato Arafat
meritevole della pena di morte, e di Abu Mussa, che l’ aveva definito un
« traditore» , erano tornati alla casa madre. Arafat di fatto aspettava con
fiducia il risultato ottenuto all’ Aja per tornare a giocare in pieno le
carte di un potere carismatico e totale ancorchè contestato; durissimo
ancorchè plasmabile, capace nello stesso tempo di dare la luce verde ai
terroristi e poi di condannarli, di dare, come è avvenuto nella settimana
scorsa un’ intervista ad Ha’ aretz in cui dichiarava la legittimità
dell’ esistenza di Israele, e dall’ altra parte di seguitare a costruire una
cultura di guerra senza quartiere con al centro il culto dello shahid; e di
ripetere che Israele è razzista, uno stato di apartheid indegno di
sopravvivere. « Le carte sono tornate a lui con la sentenza della Corte
dell’ Aja, per il raì ss un autentico salvagente» , dice il più famoso fra gli
analisti israeliani, Ehud Ya’ ari. « E l’ attentato di Tel Aviv non riporterà
il mondo a pensare ai morti sugli autobus oltre che al recinto delle
sofferenze palestinesi. La Corte ha deliberato, Arafat avrà una vittoria
completa se la cassa di risonanza internazionale porterà a ulteriori
condanne. Quanto all’ attacco, è la solita strategia: diplomazia e terrore. E
nessuno si muove se Arafat non vuole. Basta una sua telefonata a Zacaria
Zubeidi, per esempio, a Jenin, o a Hamas a Gaza, per fermare il piano» .
Sembra ironico, ma le stesse Brigate dei martiri di Al Aqsa che ieri hanno
rivendicato l’ attacco, mercoledì 23 giugno avevano chiesto chiesto un piano
di riforme per creare « una comunità più giusta basata su principi e
istituzioni» . Il primo ministro Abu Ala aveva ricevuto il documento e
promesso la commissione richiesta dalle Brigate, che doveva essere formata
da persone non corrotte o di cattiva reputazione. La rivolta di opinione è
molto diffusa: i giornalisti palestinesi hanno criticato intensivamente il
regime e per questo dal settembre 2003 una dozzina fra loro ha subito una
serie di attacchi personali, finchè si sono imbavagliati nella sede del
parlamento di Ramallah Poco più di una settimana fa nella piazza di Nablus
per l’ ennesima volta un gruppo di armati ha giustiziato sulla pubblica
piazza l’ ennesimo « collaborazionista» , che forse altro non era che la
vittima di una continua, incessante lotta fra clan. Su una gestione del
potere malata e stanca, la sentenza della Corte dell’ Aja sparge dunque una
luce di vittoria. Arafat è di nuovo alla ribalta.