IL RITORNO DEL GRANDE TESSITORE "Torno al mio lavoro, la pace" Peres: sì , farò parte del nuovo governo
giovedì 20 maggio 1999 La Stampa 0 commenti
                
Fiamma Nirenstein 
TEL AVIV 
Una delle mosse vincenti di Ehud Barak in campagna elettorale, è 
stato recuperare in pieno il rapporto con Shimon Peres che era 
rimasto a lungo in ombra, mostrare al mondo che il grande artefice 
della pace era completamente dalla sua parte, che le vecchie 
ruggini del passato, pure resistenti, erano state lavate. E adesso 
Peres, che è il numero due della lista vincente e che sarà presto 
con tutta probabilità ministro ancora una volta, può riprendere 
la marcia interrotta nel 1996. La sua linea diventa di nuovo quella 
del suo Paese dopo tre anni di solitarie battaglie. Cominciamo 
dallo sconfitto, da Netanyahu. Due parole per congedarsene? 
"Tre anni fa era una promessa per molti, oggi una delusione per 
tutti... E in conclusione di un mandato molto contraddittorio e mal 
gestito, una campagna elettorale veramente disgraziata". Dunque 
parliamo del presente e del futuro. Molti scrivono che il voto 
che ha portato Barak al potere, sia più un plebiscito contro le 
malefatte di Bibi che non a favore del processo di pace. È una 
malignità ? 
"Ambedue gli elementi sono presenti in questo voto. Ma è del tutto 
evidente che si tratta di un mandato per la pace. Le due parti che 
erano le più avverse al processo di pace infatti sono state 
duramente punite. Il partito di Benny Begin che, secondo una mia 
valutazione, aveva 8 mandati è ridotto a 3, e il partito 
nazionalista religioso che ne aveva 9 ora ne ha soltanto 5". Quali 
sono le mosse più importanti da fare per riprendere il cammino 
della pace? 
"L'accordo di Wye Plantation è il primo punto. Secondo me, Arafat 
ha mantenuto in gran parte ormai la promessa di combattere il 
terrorismo in cambio del ritiro territoriale, quindi, esso va messo 
in atto prima possibile. In una trattativa esiste una parola sola, 
pena la perdita della reciproca fiducia che è il bene principale 
per la pace. Proprio quello di cui Netanyahu mancava completamente. 
Successivamente, bisogna riprendere i negoziati con i palestinesi 
così da giungere a una soluzione permanente. Poi, ricominciare i 
colloqui con la Siria, e infine, rimettere in piedi la cooperazione 
economica e la lotta comune al terrorismo. Per questi due punti 
esistevano speciali conferenze che devono essere subito 
ripristinate". Lei crede a Barak quando egli dice di poter 
organizzare il ritiro dal Libano entro un anno? 
"Sì , si può fare. Sarebbe meglio dopo una trattativa con la 
Siria; ma se questo non sarà possibile, io sono per il ritiro in 
ogni caso". Mi sembra che lei non abbia gran fiducia nel rapporto 
con i siriani. 
"Sono di una lentezza eccessiva nelle loro mosse, e poi, la loro 
capacità di comprendere gli altri mi sembra molto limitata". 
Quando l'accordo definitivo sarà raggiunto e ad Arafat verranno 
conferiti altri territori, che idea ha del destino dei coloni? 
Diventeranno una mina vagante? 
"No: semplicemente, così come ci sono arabi che vivono in uno 
Stato non arabo, esisteranno anche israeliani che vivono sotto un 
potere non israeliano. Avranno tuttavia passaporti israeliani, per 
la maggior parte dei casi. In definitiva, saranno loro a scegliere. 
Se vogliono resteranno dove sono, altrimenti faranno le valigie". 
Lo stesso vale per la gente del Golan? 
"Là è diverso. Senza anticipare troppo soluzioni ancora incerte, 
mi pare possa far fede l'accordo con l'Egitto sul Sinai (da cui i 
coloni furono sgomberati n.d.r.)". Il processo di pace rischia di 
essere messo in crisi dal rifiuto assoluto di Barak di dividere 
Gerusalemme? 
"Gerusalemme non sarà divisa. È impensabile che esistano due 
capitali in una sola città . Io stesso sono contro. Gerusalemme 
deve restare unita, ma possiamo andare alla ricerca delle più 
svariate soluzioni, ed è quello che faremo". Non mi pare che i 
palestinesi siano disponibili a molte opzioni diverse! 
"In una trattativa, a volte si esce soddisfatti, a volte no. Non si 
esce comunque mai vincitori. E qui noi non possiamo soddisfare i 
palestinesi, come in altre cose loro non potranno soddisfare noi". 
Fin dai tempi di Netanyahu lei non è mai stato alieno ad un 
governo di coalizione. Che ne direbbe oggi, dopo che i religiosi 
sono stati così aggressivi verso Barak, proprio in campagna 
elettorale? 
"Io punto tutto sul programma: meglio costruire una coalizione 
intorno na un programma, che distruggere un programma per 
compiacere una coalizione. Dobbiamo semplicemente mettere in piedi 
un governo che possa lavorare, chi ci sta ci sta e chi non vuole 
non vuole. La pace è il punto centrale, e io desidero il più 
grande sostegno possibile, senza che questo tuttavia sacrifichi la 
pace". Lei parla come se fosse in Italia, o in Francia, e gli 
accordi fossero sempre possibili, ma qui le divisioni sono 
terribili, religiosi contro laici, ashkenaziti contro sefarditi, 
pacifisti contro guerrafondai... 
"Queste sono tutte un po' delle leggende! In realtà , siamo 
semplicemente in un Paese multietnico e multiculturale che vive in 
democrazia. La democrazia non è un lieto simposio su una sola 
idea, o un incontro fra simili. La democrazia permette di coabitare 
nel rispetto e di prendere le decisioni necessarie a seconda di 
quello che scelga la maggioranza, sapendo che non si deve mai 
mancare di rispetto a nessuno. E quando siamo in tanti, è ovvio 
che ci siano degli scontri. Tutti sanno quanto è difficile la 
democrazia. Ma resta chiaro tuttavia che ci sono decisioni che non 
possono essere prese a maggioranza: si può essere religiosi quanto 
si vuole, prediligere la cultura che si ama di più , ma mai le 
scuole private potranno prevalere, perché l'educazione è una 
scelta pubblica; e così anche gli ospedali, o l'esercito... La 
religione e qualsiasi altra scelta privata devono essere compiute 
nella massima libertà personale, e non sono oggetti di un voto di 
maggioranza...". Insomma, lei non accetta la visione di Israele 
come un Paese particolarmente segmentato... 
"Niente affatto: la verità è che abbiamo un sistema elettorale 
assolutamente pazzesco, che fa di ogni divisione, ma che dico, di 
ogni sfumatura un partito politico, un gruppo di pressione. È 
paradossale: il sistema dell'elezione diretta del primo ministro, 
da noi unito al sistema proporzionale, fa sì che puoi votare per 
un premier da una parte, e poi organizzargli subito contro il tuo 
minuscolo partitino, e farlo divenire un pesante gruppo di 
pressione alla Knesset". Farà parte del prossimo governo? E in 
che ruolo? 
"Sì , penso che ne farò parte per impegnarmi nel mio solito 
mestiere: la pace. E penso, senza false modestie e senza però 
mettermi inutilmente da parte, che quando si viene alla pace o al 
negoziato, se non altro per la mia esperienza sono fra le persone 
meglio attrezzate. Quanto al ruolo specifico, vedremo". Cosa ha 
imparato da questi ultimi incredibili risultati elettorali sul 
popolo d'Israele, che ancora non sapesse? 
"Alcuni Paesi sono famosi per il bel paesaggio, altri hanno miniere 
d'oro, altri grandi architetture. A noi è toccato il primato del 
più incredibile dramma. Questo è il Paese più drammatico del 
mondo. E il popolo israeliano ne è l'attore. È la specialità 
della casa. Ed è bello, o almeno a me piace. Ritengo la noia il 
peggior male dopo la morte, e in Israele la noia è del tutto 
sconosciuta. Dunque mi piace tanto questo Paese, e questa gente". 
            