IL RIENTRO DEI PROFUGHI, LO STATUS DI GERUSALEMME E I CONFINI DEL ‘ 77 NON ERANO NEPPURE IN AGENDA Dopo fiumi di sangue uno spiraglio per il futuro Ma i temi più scottanti non sono stati ancora sfiorati dalle due parti
mercoledì 9 febbraio 2005 La Stampa 0 commenti
CHI era già stato a Sharm nel 2000, quando i palestinesi e gli israeliani
si incontrarono per l’ ultima volta prima della tragica esplosione
dell’ Intifada del terrorismo, non poteva, ieri, non commuoversi. C’ è voluto
un fiume di sangue prima che uno spiraglio si riaprisse. Allora
dall'aeroporto fino alla zona degli alberghi si potevano vedere al vento e
al sole le bandiere egiziana, giordana, palestinese e americana: Ehud Barak
che andava all’ incontro ormai molto scoraggiato, non vide lungo la strada
neppure una bandiera bianca e celeste con la Stella di David. Al primo
ministro israeliano fu persino tolto il telefonino all’ ingresso della sala
della riunione. Stavolta invece le bandiere israeliane garrivano insieme a
quelle del mondo arabo, uguale alle altre, e a Sharon sono stati attribuiti
gli stessi onori dei Raiss arabi, pare con l’ attivo interessamento di Abu
Mazen. Gentile e sorridente è il costume mediorentale quanto è crudele e
aggressivo quando all’ improvviso il deserto si rivolta e morde. Adesso si
tratta di comprendere quando le molte promesse di pace, la promessa di Abu
Mazen di « cessare ogni atto di violenza» e di Sharon di « cessare ogni azione
militare» potranno, vorranno essere mantenute. Di buono c’ è che nelle stanze
degli incontri da cui i giornalisti sono stati rigorosamente tenuti fuori,
si è parlato intensamente di come gestire lo sgombero da Gaza decidendo che
non sarà più unilaterale come Sharon aveva deciso quando dall’ altra parte
c’ era Arafat. Stavolta a fronte di un capo palestinese che riceve la fiducia
israeliana, lo sgombero sarà gestito in collaborazione, con la mallevadoria
egiziana. Di buono c’ è anche che pare che lo sgombero di cinque città
palestinesi dovrebbe svolgersi nel brevissimo tempo di tre settimane.
Hebron, Shkem e Jenin sono città che gli israeliani ritengono ancora nidi di
terrorismo molto pericolosi, tanto da sconsigliare per adesso lo sgombero.
Di buono ci sarebbe la promessa che Abu Mazen ha ripetuto pubblicamente: un
potere, una legge, un’ arma. Sarebbe la promessa di gestire con mano forte e
diretta la repressione del terrorismo. Ma qui ci sono molti « se» e « ma» : Abu
Mazen è in un corpo a corpo con la sua riforma, sia il potere che la legge
che la forza ballano fra gruppi diversificati e in conflitto. Ciò non
significa che alla fine non possa farcela. Ma, e qui il problema si affaccia
particolarmente minaccioso, i due capi di Hamas Khaled Mashal, che gestisce
la sede dell’ organizzazione a Damasco, che Mahmoud Zahar, di Gaza, che
avevano fino a poche ore prima dichiarato di essere favorevoli all’ incontro,
sottintendendo un impegno ad astenersi da atti di violenza, subito dopo
hanno dichiarato di non sentirsi vincolati a nessun cessate il fuoco, dal
momento che a loro parere nessun risultato positivo era uscito dal vertice.
Invece ad esempio un’ altra cosa buona che solo i massimalisti non vedono è
un approccio realistico al problema dei prigionieri: è stata costituita una
commissione comune per decidere sulla liberazione dei prigionieri. I
palestinesi si dicono delusi dai novecento liberati, mentre nei corridoi si
mormora che non avevano mai pensato di raggiungere subito un simile
risultato. Adesso chiedono la liberazione di tutti i prigionieri di prima
dell’ accordo di Oslo, ma fra loro ci sono personaggi con molto sangue
israliano sulle mani; inoltre Abu Mazen ne fa una questione di principio,
perché di fatto si tratta del suo pegno politico agli estremisti delusi.
Sharon lo capisce e cerca di seguire l’ indicazione americana di non
destituirlo di autorità agli occhi della sua gente. Tuttavia, i più
sanguinosi attacchi terroristi sono ferite ancora aperte, e Sharon deve
rispondere alla sua costituency sull’ unico terreno su cui anche agli occhi
della destra può ancora vantare meriti, quello della sicurezza.
Di buono al summit c’ è stato soprattutto il coraggioso, scoperto impegno dei
leader, che giocano la loro vita e il loro ruolo storico nella promessa
della pace. Ariel Sharon ieri ha di nuovo sfidato la destra e 150mila
settler con frasi piene di coraggio, tornando ripetutamente allo sgombero,
dicendo che Israele ha imparato ad avere a che fare col dolore di rinunciare
ai propri sogni, e chiedendo lo stesso ai palestinesi. Si è messo di fronte
ad Abu Mazen all’ altezza degli occhi, descrivendo il rischio che ad opera di
estremisti corre il programma di pace da ambedue le parti. « Questo è il
giorno in cui il processo si muove di nuovo per portare pace al Medio
Oriente» . Due Stati per due popoli, fine delle sofferenze dei palestinesi,
Sharon non si è risparmiato niente di ciò che la destra non dice mai. Abbas
ha fatto lo stesso, chiamando violenza la violenza, impegnandosi in prima
persona a fermarla. E Mubarak, che sa che lo aspettano molte responsabilità ,
le ha addirittura allargate dicendo che la pace fra palestinesi e israeliani
può rappresentare l’ inizio di un’ era nuova per tutto il Medio Oriente, e che
lui sta al centro del processo. Ma nell’ ombra restano i grandi problemi su
cui si deve ancora metter mano: la ripresa degli attentati da parte di
Hamas, della jihad islamica e l’ ingerenza ormai palese degli Hezbollah (non
a caso ieri la Rice da Roma ha minacciato la Siria di sanzioni se non
cesserà di aiutare gli Hezbollah). Ma altrettanto importante l’ enfasi che,
accettando ambedue le parti l’ idea della ripresa della Road map, pure Abu
Mazen mette sulla sua ripresa in vista di una soluzione definitiva. Sharon
invece vede la cosa suddivisa in tre fasi: sgombero, verifica della
situazione della sicurezza, e infine ripresa della Road map con una
soluzione definitiva in vista. I temi più scottanti, ovvero quello dei
profughi, di Gerusalemme e dei confini del ‘ 77 per ora non sono neppure
sull’ agenda. Ne abbiamo ancora da remare.