Il regista dell'Intifada
domenica 12 novembre 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV SARI Nusseibah, direttore dell'Università palestinese di
Al-Quds (Gerusalemme), uno degli intellettuali più apprezzati da
Arafat, una voce di primo piano anche al tempo dell'Intifada di cui
è stato ideologo e regista insieme con Faisal Husseini, ha saputo
della morte di Rabin ad Amman, di ritorno da Abu Dhabi dove si era
tenuto un summit arabo su Gerusalemme. Qual è stata la sua reazione
all'assassinio?
colpito. Le è dispiaciuto?
difesa: non riesco mai a provare dolore per i lutti, là per là . Poi
nel corso della settimana, guardando le lacrime di Leah e dei suoi
figli alla televisione, ho provato un sentimento di condivisione, di
simpatia. Leah Rabin ha detto che talvolta sente maggiore affinità
con alcuni palestinesi che con certi ebrei. Lei potrebbe esprimersi
in maniera simmetrica a questa, rispetto al suo campo?
che potrei esprimermi esattamente in questo modo. Leah Rabin sta
attraversando una tragedia senza pari, le sue parole sono dettate
anche dalla sua grande rabbia. Noi, israeliani e palestinesi, abbiamo
passato molti anni in guerra l'uno contro l'altro: questo ci ha
impedito di frequentarci, di capirci, di sviluppare una simpatia
umana. Tuttavia fra di loro, come fra i russi, o fra gli americani, o
gli inglesi, ci sono persone con le quali sento personalmente una
simpatia primaria, di essere umano. Solo in base a questo io scelgo i
miei rapporti. Forse nel futuro avremo più chance di essere vicini.
Arafat era addirittura fisicamente dolente per la morte di Rabin: ha
pianto, era prostrato. Non crede che comunque la morte di Rabin
darà una scossa ai rapporti fra i due popoli?
sembra che ormai siamo abbastanza pronti a questo: i pregiudizi,
"quello è un arabo", "quello è un ebreo", persistono solo fra
la povera gente, fra gli strati non educati. Arafat, poi, in
particolare, ha avuto, come altri palestinesi, modo e tempo di
sviluppare una vicinanza, un'affinità con Rabin che è passata dal
comune scopo politico anche sul terreno umano. Questo è capitato
anche ad altri: pensi all'amicizia fra Abu Allah e Uri Savir, i capi
delle due delegazioni ai colloqui di pace. Arafat è meglio protetto
di quanto non lo fosse Rabin?
uccidere sul serio; e che si sia ben organizzato per questo, a
differenza di Rabin. Però , niente lo può garantire fino in fondo.
Lei pensa che il fondamentalismo arabo e il fondamentalismo ebraico
siano simili?
affetta dal seme dell'omicidio politico, dalla follia di chi pensa di
poter risolvere il suo problema eliminando il leader. Pensa che il
processo di pace sia in pericolo?
guardasse. Al contrario:
sentire. Era piuttosto la laica catena della memoria di ciò che
resta vivo nel presente a creare la continuità con l'uomo ucciso in
quella stessa piazza. Una concezione in cui il morto resta vivo nella
storia e negli atti degli altri uomini. Il profilo scuro, fatale
contro la notte, Leah ha ricordato come insieme a lei Rabin fosse
venuto nella piazza, come avesse goduto della folla. E poi
l'assassinio. La famiglia è tornata alla casa da te tanto amata, ha
detto Leah Rabin, ormai sola per sempre.
rielaborazione pubblica del suo lutto, un evidente sforzo di
assimilazione della realtà compiuto insieme alla sua gente: ha
parlato della bara coperta con la bandiera, e dentro
l'uomo che nessuno poteva mai fermare. E poi i funerali, a cui sono
intervenuti 80 leader da tutto il mondo, e il pianto di ciascuno di
loro; ma soprattutto il vero pianto di Israele, ha ricordato la
nonna, quello della sua Noah, nipote carnale di Yitzhak. E poi il
grande fenomeno dei ragazzi che a decine di migliaia sono venuti a
piangere, a portare le loro lettere, i loro fiori, a parlare alle
pietre su cui Rabin è caduto, a promettere di non abbandonare mai la
sua memoria. E a casa, ha ricordato Leah, le visite di mezzo mondo:
ebrei, musulmani, cristiani, drusi, circassi... E qui il profilo di
Leah si è sollevato verso il cielo nero:
si è visto un lutto così grande in Israele, e forse mai nel mondo.
Così Leah Rabin ha voluto riproporre, senza sfumature, con tono
definitivo, la forza del messaggio, la grandezza del marito. E poi,
rivolta alla piazza, perché ritrovasse un po' di fiducia, ha avuto
anche parole d'incoraggiamento per dediti
alla sicurezza, le guardie del corpo la cui protezione avrebbe dovuto
costituire uno scudo totale per il marito: lui stesso credeva che mai
niente avrebbe potuto accadergli. Nessuno, ha detto Leah, l'avrebbe
mai creduto, e invece Rabin è caduto per l'aggressività , per
l'attacco inaspettato della violenza estremista.
avete avuto troppa fiducia in lui, avete sottovalutato le urla
rabbiose della destra... ma oggi invece tutti sappiamo che è vietato
ignorare, è vietato tacere. Leah Rabin ha voluto concludere con la
speranza che la maggioranza silenziosa non sarà mai più tale, che
non potrà mai più esserlo:
sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno. E oggi, da questo
disastro, da questo prezzo pazzesco che abbiamo dovuto pagare, spero
che nasca il mondo per cui tu ti sei battuto, spero che tu non sia
caduto per nulla. Leah ha chiuso con un messaggio direttamente
politico: il racconto di una telefonata a Peres.
insieme, ora sei rimasto solo, ma la nostra famiglia, e tutti quanti
i membri del governo, non ti lasceranno solo. Adesso dovranno
aiutarti tutti coloro che sono a favore della pace. Come un mare
agitato, la folla, accompagnata dal ritmo delle canzoni piene di
nostalgia, di giovani caduti, della fatica della guerra e della vita
che il popolo ebraico canta dalla guerra del 1948, si componeva e si
scomponeva nella grande piazza in correnti senza meta, spostandosi da
ogni parte. Le domande che stanno di fronte alla ripresa della vita
israeliana sono domande cruciali: la discordia con il sionismo
religioso la cui profondità si scorge solo adesso è ricomponibile?
O appena passato lo choc, il mondo della destra fondamentalista
tornerà a scatenarsi in parole e fatti incontenibili? È possibile
una guerra fratricida? Simon Peres, che è stato il compagno
intellettuale del viaggio politico di Rabin, nel cui volto e nelle
cui parole si vede in questi giorni la determinazione, ma anche la
paura, sarà capace di guidare da solo il Paese? Sarà capace di
tenere unito anche il partito laburista, un partito dalle limacciose
liti interne? E il fatto che Israele sia profondamente scossa nella
fiducia verso i suoi servizi di sicurezza, non importanti solo per
gli uomini politici, ma per la nazione, darà una sensazione di
sfiducia anche verso il processo di pace? E infine, finora il
terrorismo arabo ha taciuto, ma fino a quando? E come saprà questo
Paese orbato ricevere il prossimo colpo? L'ultimo dei cantanti, il
quale prima che il pubblico intonasse l'inno nazionale, ha salutato
con una canzone la memoria di Rabin, seguito da un coro lento,
disperato, si chiama Aviv Gefen: i capelli neri, lunghi, appiccicati,
i numerosi orecchini, il trucco pesante, le parole delle sue canzoni
ne fanno un perfetto iconoclasta, un mito della generazione che non
vuole la guerra, che vuole vivere senza padri, senza sionismo
socialista, senza esercito, senza più soffrire, senza gran senso
della collettività . Ieri, però , Aviv Gefen, di fronte a decine di
migliaia di suoi coetanei, ha cantato la primogenitura dei giovani
israeliani nei confronti di un uomo che era invece la bandiera di
tutti i miti della fondazione. Un soldato, un pioniere, un uomo che
credeva nella solidarietà , nel dare la vita per il proprio Paese
come ha fatto, e come ha rischiato di fare mille volte sul campo di
battaglia, da generale. È come se d'improvviso la pace, nel nome di
Rabin, avesse trovato quell'epos profondo che finora non aveva saputo
esprimere, sovraccaricata com'è stata di cerimonie, di pubbliche
rappresentazioni. In questo senso, davvero, come vuole Leah, può
essere che la fiaccola sia passata di mano, che la continuità si sia
ristabilita. Ora tocca a Peres. Fiamma Nirenstein