Il papa, gli israeliani e i palestinesi
Shalom.it giugno 2014
E' stata positiva o negativa per Israele la visita di papa Francesco? Come al solito, ai sorrisi diplomatici e a qualche vero momento di comunanza soprattutto umana (perchè sia Francesco che Shimon Peres che Bibi Netanyahu sono tipi affettuosi) ha fatto da controcanto sulla stampa israeliana e internazionale una serie di commenti iconoclasta che è sfociata in alcune condanne assolute del comportamento papale. Io non sarei drastica: intanto bisogna essere pronti a riconoscere che la diplomazia impone sempre i suoi balzelli, e che quindi Bergoglio, nella tradizione della Chiesa, aveva la necessità di mostrare equanimità fra due parti in conflitto che gli consentisse di salvare capra e cavoli.
Non sapremo mai quale sia stato veramente il suo pensiero, conosciamo solo la sua intenzione, quella di apparire equanime. Si può dire tranquillamente che questo atteggiamento contiene una dose inevitabile di menzogna;cioè, che per compiacere il mondo arabo, di cui si temono gli atteggiamenti anticristiani, si pretende di credere che le due parti in conflitto siano pari e patta nelle responsabilità e le colpe. E che la parte più povera economicamente e che quindi agli occhi dell'opinione pubblica mondiale appartiene all'universo degli oppressi, abbia in sé e per sé un contenuto positivo. Naturalmente non è così, una parola almeno sul fatto che Israele è l'unico paese asiatico e anche del confinante continente africano che considera i cristiani assolutamente alla pari, giuridicamente e moralmente, coi suoi cittadini, che i suoi cristiani sono gli unici ad essere cresciuti di numero (da 34mila nel '48 a 161mila nel 2013, e crescono ogni anno) in un mondo in cui i cristiani spariscono a causa delle persecuzioni islamiche, questo il Papa lo poteva dire, o accennare. C'è una bella differenza fra la democrazia israeliana e la autocrazia palestinese, e se le misure di sicurezza in Città Vecchia hanno, certo non perchè mirate "ad cristianos", creato problemi di accesso ai vari eventi di interesse è per i seguaci di Gesù, l'unico responsabile da ringraziare è il terrorismo islamico, che minacciava Francesco come e di più di qualsiasi altro ospite importante in Israele. O forse il terrorismo sia una fantasia inventata per infastidire i cristiani?
Quanto poi alle poche decine di idioti fanatici che scrivono parole di odio sui muri contro i cristiani e gli arabi, menomale che su questo c'è stato un atteggiamento pacato e proporzionato, non come quello dei maggiori giornali italiani, che ci hanno fatto e ci seguitano a fare titoloni, come se invece di qualche odiosa scritta si trattasse di attacchi terroristi omicidi. Il viaggio deve essere considerato nel suo insieme, e, nella sostanza delle cose, si tratta di capire a quale si vuole dare più importanza fra due eventi primari che hanno punteggiato il viaggio, due episodi centrali nella visita papale. Il primo è naturalmente la sosta al muro, parte del recinto di divisione, che per un breve tratto separa Betlemme da Gerusalemme. Là il Papa ha compiuto una sosta inaspettata lasciando la città della mangiatoia. Ma a questo fa da contraltare la sua visita alla tomba di Theodor Herzl sul Monte Herzl, accompagnata anche da un omaggio (non programmato) al memoriale dei caduti per terrorismo. Il papa si è fermato e si è raccolto in preghiera, gesto molto solenne, davanti al muro di separazione.Per l'appunto o per scelta, è stato fotografato in atteggiamento molto contrito davanti a una scritta che diceva "questo muro fa ricordare l'abuso criminale dei nazisti contro gli abitanti del ghetto di Varsavia". Un vero abuso concettuale: Betlemme è una fiorente cittadina che commercia, vive, gode di una vita del tutto normale ricevendo miriadi di turisti.
I palestinesi, si capisce, sono stati così contenti che hanno deciso di stampare un francobollo con l'immagine dell'evento, ma sarebbe meglio, se non vogliono che la storia li sbeffeggi, che ne facessero a meno. Innanzitutto, la storia registra per certo che quel muro ha salvato dal 98 per cento dei gesti terroristi programmati innocenti cittadini; che fu costruito con dispiacere solo dopo che mille israeliani erano stati uccisi nei caffè e sugli autobus; che la barriera che divide israeliani e palestinesi è frutto di necessità e non di scelta, e che si trasforma in muro solo dove la violenza è stata intensiva e frequente quanto appunto lo fu quella proveniente da Betlemme, dove le Brigate di Al Aqsa, Hamas, i Tanzim non solo preparavano a dozzine attentati con la cintura di esplosivo, ma sparavano col bazooka sulle case dei quartieri ebraici circumvicini.
Il Papa certo sa anche che Betlemme i cristiani erano il 90 per cento agli inizi del 900, il 40 nel 2000, e ora, nella cittadina stessa, sono rimasti il 18. Ci sono tante cose, tante verità sottaciute, da dire su Betlemme: per esempio che il campo profughi di Deheshe visitato dal Papa è di fatto una prigione per i palestinesi stessi costruita da palestinesi. Io che ci sono stata tante volte per lavoro, posso dire che alcuni amici residenti del posto, che sognavano di uscirne per costruire finalmente una nuova vita fuori, in città, nell'Autorità palestinese, hanno subito pressione di ogni genere, prima di poterlo fare una volta sposati, per restare nel ruolo di "profughi" di quarta generazione; e che i bambini ricevono un'educazione dall'UNRWA che li educa a disegnare come scopo quotidiano la distruzione dello Stato d'Israele.
Ma veniamo al secondo gesto del Papa: è la prima volta che un pontefice visita la tomba di Herzl, padre del sionismo. Mentre la visita al monumento ai caduti per terrorismo è da considerarsi una specie di riparazione immediata per la visita al muro, che blocca, appunto, il terrore responsabile della loro morte, l'omaggio al fondatore del sionismo assume un inusitato valore politico e teologico. IL Papa l'ha sottolineato: per lui il sionismo è il logico e necessario sviluppo del valore teologico dell'ebraismo, e quindi come tale deve essere considerato dal mondo cattolico. Questo appare l'evidente sottinteso: l'aspirazione e poi la realizzazione dello Stato degli ebrei nella terra d' Israele, calcata dalla visita papale, viene legittimata dall'omaggio a Herzl come fatto positivo, e quindi si riconosce qui il diritto del popolo ebraico stesso al ritorno alla sua casa di sempre. Questo in tempi di delegittimazione intensiva ad opera dei palestinesi e di una pletora di organizzazioni che praticano la calunnia, il boicottaggio, la delegittimazione, è molto importante, e nel tempo può scavare nelle coscienze cristiane una nicchia di affetto e anche di ammirazione per la magnifica impresa del popolo ebraico che è stato capace in tante peripezie di mantenere la sua stella polare viva. Il Papa ha riconosciuto che il sogno di Herzl è parte della strada maestra della indispensabile vita del popolo ebraico.Dunque, in questo ping pong di eventi, il risultato appare pari.
Dispiace quindi particolarmente il fraintendimento per cui a Netanyahu, che in maniera molto appropriata ricordava con un sorriso che Gesù parlava ebraico, il Papa abbia risposto, non del tutto garbatamente, "No, Gesù parlava aramaico". La verità è che Gesù parlava anche aramaico, lingua peraltro molto usata dagli ebrei anche nei commentari, ma che certamente, in quanto ebreo religioso, conosceva l'ebraico lingua base di tutte le occasioni solenni, delle preghiere, della Torah. Il Papa non doveva farsi sfuggire l'occasione per ribadire che Gesù era ebreo, uno dei mezzi migliori per combattere l'antisemitismo. Invece ha dato agio ai sostenitori delle ridicola tesi che Gesù era palestinese di poter dire: hai visto, l'ha detto anche il papa che Cristo non parlava ebraico.Peccato.