IL MONDO CHIEDE AL PREMIER LA PACE IL KIBBUTZ DI BARAK
mercoledì 7 luglio 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
DUNQUE, finalmente da ieri Ehud Barak è il decimo primo ministro
della
breve storia d’ Israele. Il mondo si aspetta da lui la pace in Medio
Oriente:
l’ ansia che lo circonda, a casa e fuori, ha i tratti della nevrosi.
Egli è
l’ uomo che deve rimettere in piedi il processo di pace, l’ uomo che
deve
cancellare la memoria di cui esso sembrava andare perduto, che deve
in buona
sostanza conquistare a Israele una grande speranza e la stima di
tutte le
nazioni. E’ anche l’ uomo che deve ricucire la terribile frattura
interna fra
mondo laico e religioso.
Nel grande edificio neoclassico ma anche simile alla sala da pranzo
di un
kibbutz che è la Knesset, Israele ha di nuovo messo in scena, ieri
uno dei
suoi classici drammi, dei suoi infiniti giuochi con la morte e con la
vita,
con la pace e con la guerra. Exit Netanyahu, ma non come succederebbe
in
Italia: l’ ex primo ministro se ne va davvero, si dimette dal partito
e dal
Parlamento, e chi ieri gli ha stretto la mano, anche tra quelli che
lo hanno
odiato di autentico profondissimo odio più che politico, lo hanno
salutato
con senso di separazione familiare: c’ è uno strano momento in cui
Israele
alla fine ridiventa sempre un kibbutz.
Entra Barak, e con le spalle troppo dritte e aperte, con la voce
troppo
scandita, come si conviene a quel soldato integrale che è l’ ex capo
di Stato
Maggiore, figlio del kibbutz Mishmar Hasharon, ha trovato il
coraggio,
dall’ alto seggio del suo primo discorso da primo ministro, di
chiamare per
nome, nell’ ordine, Arafat e Hafez Assad alla pace. Non era una scelta
scontata ribadire ai sette partiti così diversi tra loro che siedono
nella
sua coalizione fornendogli ben 75 voti, tra cui anche quelli dei
religiosi
di Shas e dei nazionalisti, che lo scopo primario, assoluto di questo
governo è la pace. Nelle stesse ore Assad trattava l’ acquisto di 2
miliardi
di dollari d’ armi con la Russia. Dunque, per quanto sia, nella storia
attuale, i palestinesi che da casa guardavano certamente anche loro
la
televisione, sembrano restare i primi interlocutori reali d’ Israele.
Barak
ha parlato anche per loro.
« L’ opera del sionismo non sarà completata finché non sarà raggiunta
la pace
della sicurezza per noi e per i nostri figli» ha detto Barak,
porgendo a
tutta Israele, laica e religiosa, e a tutti quelli che sono
dimenticati
l’ idea-forza che era anche di Rabin, della sua ideologia: il
sionismo. Non
sarà in nome dell’ America né della pressione internazionale, e tanto
meno
della paura del mondo arabo che Barak farà la pace: la farà in nome
del suo
« sionismo» . Chi vuole aiutarlo, deve vedere il prossimo processo di
avvicinamento fra le parti anche in questa ottica, e rispettarlo.