IL LEADER PALESTINESE NEI RICORDI DELL’ INVIATA DELLA STAMPA Quella vo lta che Arafat si infuriò per la carta del suo futuro Stato « Gli avevo chiest o di disegnare i confini. Mi disse di rivolgermi all’ Onu»
sabato 13 novembre 2004 La Stampa 0 commenti
I miei colleghi erano un po’ preoccupati quando, nel maggio 1987, partii
per Tunisi per incontrare Arafat: ero una giornalista ebrea, ancorché
italiana, i tempi erano duri, il processo di pace lontano. Arafat viveva
asserragliato in un confino da cui lanciava attacchi terroristici, anche se
era già stato accolto all’ Onu. Aveva avuto le incursioni di Israele fin
dentro casa, non aveva ancora accettato la risoluzione dell’ Onu 242 che
riconosceva implicitamente Israele. Re Hussein di Giordania e il presidente
egiziano Mubarak erano molto irati con lui, perché il suo atteggiamento
seguitava a essere estremista.
Arafat era perfettamente integrato nel ruolo del guerrigliero rivoluzionario
che, come Che Guevara, viveva la battaglia del suo popolo come una parte
della riscossa dei poveri del mondo contro l’ imperialismo e il colonialismo.
Da questa posizione aveva già conquistato un orizzonte di slogan pacifisti,
come tutto il fronte dei non allineati. E, in stato di grave difficoltà , si
preparava alla dichiarazione di Algeri di accettazione dell’ esistenza dello
Stato d’ Israele e di proclamazione di uno Stato palestinese, che sarebbe
stata firmata nell’ 88.
Questa accettazione - e soprattutto la proclamazione di uno Stato, un’ entità
di per sè limitata - rappresentava però già allora un motivo evidente di
rovello, di doppio registro, e anche se non capivo bene che cosa stava
succedendo, pure di questo ebbi un’ evidente dimostrazione durante
quell’ intervista. Per incontrare Arafat - la prima delle molte volte in cui
l’ ho visto e gli ho parlato - andai con il fotografo Alberto Bevilacqua a
Tunisi, dov’ era fuggito nel 1982 dopo che gli israeliani lo avevano stanato
da Beirut. Fummo trasportati in lungo e in largo, avanti e indietro, per le
stradine della periferia, fra villette e gelsomini. Cambiammo due case,
sempre accompagnati e sorvegliati da giovani guardie del corpo che ci
facevano compagnia con chiacchiere e slogan. Aspettammo varie ore senza
mangiare e senza bere - era Ramadan - in una piccola sala d’ attesa finché
Arafat comparve molto sorridente, con la keffya perfettamente aggiustata, la
divisa stirata, gli occhi guardinghi.
La sua scrivania era un mare di carte. Il momento più importante venne
quando io esercitai la mia baldanza porgendogli una carta geografica
dell’ area e un pennarello rosso. Gli dissi: « Mi disegni per favore i confini
della Palestina come lei li ha in mente» . Sotto gli occhi attenti di
Bevilacqua, che seguitò a scattare, Arafat si infuriò : quasi mi tirò la
carta, si alzò , minacciò di interrompere l’ intervista, e poi mi disse:
« Israele è l’ unico Paese che non ha mai consegnato all’ Onu una carta con i
suoi confini. Se vuole che qualcuno le indichi dei confini, vada all’ Onu, io
non segno nulla, vada all’ Onu e se riesce a ottenere una risposta le pago il
biglietto» .
La storia della carta fece grande impressione ai suoi, che mi dissero che
questo voleva poter dire che Arafat avrebbe accettato i confini del ‘ 47,
quelli a suo tempo stabiliti dall’ Onu e rifiutati dai palestinesi di
concerto con i Paesi Arabi. E che questo sembrava loro un bel passo avanti.
Oggi, alla luce degli eventi cui ho assistito, leggo quella riposta così
irata come il profondo, abissale rifiuto di Arafat ad accettare quel corpo
estraneo che Israele rappresentava per il mondo arabo e in particolare per i
palestinesi, come un’ esclamazione di disprezzo per il consesso
internazionale che non aveva saputo contenere Israele dopo la guerra del ‘ 48
nei confini assegnateli originariamente, e in definitiva quello che spiegò
Abu Yad nell’ 88 dopo la conferenza di Algeri: che il dichiarare uno Stato
palestinese non significava per l’ Olp accettare, per ora, alcun confine
prestabilito o rinunciare a qualche parte della Palestina storica.
Con questo non voglio dire che in alcune fasi della sua vita Arafat non
abbia ponderato l’ ipotesi di farlo: ma quel lancio della carta, quello
scatto d’ ira, erano il suo sentimento vincente. Lui, la Palestina la voleva
tutta e non ce la fece neppure a Oslo, a fare quel segno col pennarello.
Fra le tante altre occasioni in cui ho incontrato Arafat - specie durante il
processo di pace, quando la folla estatica lo accoglieva nelle città
sgomberate una a una - per due volte ho assistito ad autentici cambiamenti
di personalità : ricordo una versione ultrapacifista alla Partita del Cuore a
Roma, dove sedemmo a chiacchierare insieme a Shimon Peres e i complimenti
volavano, i sorrisi si sprecavano.
Arafat mi disse che « quello era il mondo migliore, il mondo della pace dei
bravi» . Parole astute, sempre troppo intelligenti, come era il Raí ss. Nello
stesso periodo nell’ Autonomia già si sapeva che si preparava la guerra, le
armi si accumulavano, i tanzim si organizzavano. L’ apparente
incontrovertibilità della situazione, i sorrisi troppo larghi, l’ aria
salottiera erano attraenti come carta moschicida, densi come la crema. Poco
dopo scoppiava l’ Intifada delle Moschee.
Infine, l’ ultima volta prima dell’ estate, già dopo l’ attacco alla Muqata,
Jibril Rajoub invitò la stampa estera a una conferenza stampa sul recinto di
separazione dopo la quale ci disse che il Raí ss ci aspettava. Chiedemmo se
ci avrebbe comunicato qualche messaggio, se aveva qualcosa di dirci. Disse
che pensava di sì . Non era così . Entrammo in fila indiana, un fotografo
scattava mentre Arafat ci stringeva la mano e ci diceva alcune parole
gentili. Promettendo un ulteriore incontro con dichiarazioni. Eravamo
stupiti, ma non c’ era da esserlo: la stampa era sempre stata la sua massima
risorsa, l’ invenzione di quell’ ora era convogliare un numero alto di
giornalisti della stampa estera, per dimostrare che non era affatto
« irrilevante» , come diceva invece il premier israeliano Sharon.
Di fatto, irrilevante lo è stato per il processo di pace, ma non per i media
o per i palestinesi che fino alla fine, quando ho chiesto se avrebbero
abbandonato le armi se Arafat gliel'avesse chiesto, hanno sempre risposto di
sì . Anche Hamas. Ma lui non gliel’ ha chiesto, e sono sicura che anche in
quella stretta di mano con tutti i giornalisti, segno di debolezza e di
astuzia, c’ era, ancora e sempre, una specie di « hasta la victoria siempre» .
Che non è tutto quello che vogliono i palestinesi. I palestinesi, mi sembra,
vogliono uno Stato.