IL LEADER CON LA KEFIA SULLE SPALLE
martedì 11 gennaio 2005 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
LA kefia e Arafat sono state sempre una cosa sola, un allusivo, duro flash
di bianco e nero sulla storia, una bandiera di guerra. Aggiustata sulla
spalla in modo da foggiare il disegno della Grande Palestina dei suoi sogni,
la kefia era il simbolo della lotta a tutto campo, dal terrorismo all’ Onu,
che Arafat aveva forgiato. L’ hanno adottata i suoi militanti e gli
ammiratori in tutto il mondo, insieme all’ eskimo degli Anni 60. Adesso
adorna la sua tomba, e, ripiegata ordinatamente intorno al collo in questi
giorni di elezioni la portavano senza enfasi i militanti del Fatah, a volte
seminascosta dalla giacca. Anche il nuovo presidente palestinese appena
eletto, Abu Mazen, la porta così . La sua immagine è quieta e tecnocratica
nonostante abbia condiviso tutta la strada con Abu Ammar. Nessuno l’ ha mai
fotografato armato, né in divisa, come invece è quasi sempre raffigurato
Arafat. Ma le sue intenzioni sono oggi il grande enigma la cui soluzione
tiene il mondo col fiato sospeso: chi è veramente l’ uomo scelto per
sostituire il rais? Vuole guidare il suo popolo alla prosecuzione
dell’ Intifada o verso il compromesso e la pace? E’ la copia di Arafat, o ne
è l’ antitesi?
Il programma dichiarato, il ritorno dei profughi, i confini del ‘ 67,
Gerusalemme capitale, è identico a quelli del rais. In certi casi Abu Mazen
lo ha eguagliato anche nell’ estremismo delle espressioni, come quando ha
chiamato Israele « il nemico sionista» . Ma l’ impressione invece è che forse
ci si trovi di fronte a una svolta. Anche Sadat che sembrava all’ inizio una
copia sbiadita di Nasser ha portato la pace fra Egitto e Israele. Il popolo,
votando Abu Mazen, lo ha fatto avendo ben chiaro, quali che siano gli slogan
elettorali, che perse il posto di primo ministro perché disse che la lotta
armata, leggi il terrorismo, era stata un errore. E oggi la gente vive sulla
sua pelle le conseguenze di questo errore: il lutto, la miseria, i
prigionieri, i latitanti sono diventati la vita quotidiana della gente che
non ne può più . I palestinesi vogliono ricominciare a vivere, e sanno che lo
scontro frontale non paga. D’ altra parte la cultura del martirio e la
demonizzazione di Israele sono pane quotidiano da quasi cinque anni: la
contraddizione consiste in un popolo desideroso di pace ma abituato alla
guerra e a un incitamento senza precedenti. Sharon, per parte sua, certo
durissimo col terrorismo, spera adesso di recuperare un partner, perché
questo la faciliterà nel programma di sgombero e nei rapporti
internazionali; Abu Mazen è forte dell’ investimento mondiale sul suo nome e
può trattare con vantaggio, sempre che dia segno di seguire una linea
moderata.
E qui viene un punto delicato: se il mondo non aiuterà i palestinesi a
conquistare il loro Stato senza obbligarli in parallelo a combattere il
terrorismo spingerà Abu Mazen sulla strada della vecchia kefia. Israele, è
evidente, farà notevoli concessioni solo se i kassam cesseranno di piovere e
gli autobus di esplodere. Quindi l’ Europa deve rispettare Abu Mazen al punto
di chiedergli in cambio dei soliti aiuti di essere quel rais moderato che
forse vuole diventare.