Il guerriero I premier è stato troppo arrogante
giovedì 3 agosto 2000 La Stampa 0 commenti
EHUD Barak si è dannato da solo sulla più titanica impresa del
Medio
Oriente: la pace. E in queste ore di solitudine, ne paga le
conseguenze. Gli
era sembrato facile e sensato portare tutta la sua valanga di
elettori sino
a Camp David: essi avevano obbedito un anno fa a un istinto prima
ancora che
a un ragionamento quando avevano buttato giù Netanyahu e avevano
abbracciato
Barak eleggendolo col voto diretto Primo ministro. Quindi, egli si è
sempre
sentito più plebiscitato che eletto, e in questo c’ è una verità che
trascina
Israele inesorabilmente dalla sua parte, ma che ancora non ha
distrutto le
barriere religiose, politiche, etniche. Forse gli era sembrato anche
che la
sua biografia, il suo essere contemporaneamente soldato e uomo di
kibbutz,
uomo di esercito, di cultura e di grandi ideali comunitari, gli
dovesse
costituire un merito storico intoccabile. E anche in questo c’ è
qualche
verità , che però non regala dividendi politici.
Dal suo sentirsi invincibile, oltretutto Barak ha ricavato l’ idea di
poter
gestire gli uomini con durezza e persino con prepotenza, ha creduto
di poter
tenere insieme Shas, il partito dei religiosi sefarditi, e Meretz, il
partito di Yael Dayan che nel sacro giorno della penitenza di Kippur
andava
a prendere il sole in bikini sulla spiaggia di Tel Aviv, e ha tenuto
ambedue
i partiti in una sorta di sala d’ attesa continua, offendendoli. Ha
pensato
persino di potersi tenere un ministro degli Esteri sefardita come
David
Levy, un vero re dei marocchini, un personaggio oltremodo concentrato
sulla
propria carriera e sul proprio onore, senza però metterlo a parte
delle sue
scelte strategiche fondamentali proprio nel campo della politica
internazionale. Si è anche immaginato che Arieh Sharon, succeduto
allo
scalpitante Netanyahu, sarebbe stato un segretario del Likud
abbastanza
vecchio e consumato da accettare alla fine un governo di coalizione,
solo
che Barak ne avesse avuto bisogno. E alla fine ha creduto anche di
poter
strapazzare i suoi stessi compagni ponendoli in ruoli governativi e
politici
minori o disadatti. Ha pensato solo, più che a se stesso, alla sua
pace. E a
Camp David ha tirato fuori infatti una pace spettacolare,
funambolesca,
provocatoria persino per la sinistra, fuori da ogni canone
precedentemente
considerato, con inclusa la spartizione di Gerusalemme e persino il
rientro
di un gran numero di profughi, nonché l’ espulsione di fatto della
maggior
parte dei settler dal West Bank, con la cessione del 90 per cento dei
Territori.
Adesso, Barak è rimasto solo con la sua pace. Gli sarà inutile
cercare
compromessi con un Likud che non può accettare le sue linee di
spartizioni
palestinesi; gli sarà difficile ritrovare l’ amicizia di Shas; gli
sarà molto
difficile persino mantenere un punto di equilibrio con un
governicchio di
minoranza che conti su personaggi che ormai non vogliono più
sostenerlo.
Barak ha una sola carta: utilizzare questi tre mesi di respiro che i
meccanismi parlamentari e le vacanze della Knesset gli consentono per
correre a ruota libera verso la pace che ormai ha fatto uscire dalla
lampada
di Aladino, e ora non può più tornare dentro, come invece gli
chiederebbe
Sharon in cambio di un governo di coalizione. Barak deve incontrare
Arafat,
fare un accordo che porti la gente d’ Israele a confrontarsi non più
sugli
schieramenti, ma sulla pace stessa, su una pace sostanzialmente
conclusa,
definitiva, che lasci intravedere orizzonti che la gente di qui non
ha mai
visto. E poi, andare sicuro alle elezioni. Questa è la carta di
Barak: deve
giocarsela da solo, a tu per tu con la storia.