IL GIORNO PIÙ DIFFICILE
venerdì 2 aprile 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
ANDREW, Christopher e Steven, ragazzi americani, forse non sapevano
neppur dove fosse il Kosovo sino a qualche settimana fa, e ora sono
prigionieri dei serbi, nel giorno più difficile della guerra,
quando persino l'appello del Papa alla tregua è stato respinto al
mittente, senza tanti complimenti, da Bill Clinton. Difficile
capire; e anche per noi difficile convincerci che quei soldati Nato
che vediamo sul teleschermo sono roba nostra: stanchi e dolenti,
sporchi di sangue per le botte ricevute, messi ritti l'uno accanto
all'altro perché le telecamere possano meglio riprendere la preda.
Adesso, oltre alla pena per i kosovari decimati e quella per i
serbi bombardati, non possiamo più sfuggire alla nostra identità
belligerante a causa della sofferenza per quei ragazzi in divisa
che abbiamo tanto stentato a sentire nostri. Si è compiuto ieri un
grande salto di qualità che nessuna madre di soldato sa maneggiare
razionalmente: è il momento in cui entrano in gioco la carne e il
sangue. I tre soldati catturati prefigurano un possibile attacco di
terra, quello che la Nato si è sforzata invano di esorcizzare.
Perché a terra si muore, si ammazza faccia a faccia.
La guerra diventa guerra vera, ed è allora che occorre la piena
fiducia nella causa e nei leader. Invece, quella che oggi vivono
gli Alleati è una situazione di nebbia ideologica e politica,
appena rischiarata dalla causa umanitaria dei kosovari. Siamo
confusi: pensavamo che la fine della Guerra Fredda aprisse un
periodo di pace. Che le guerre etniche e religiose avessero una
dimensione episodica e regionale; che la leadership americana fosse
meno conflittuale; che i russi smettessero di considerarsi una
grande potenza bipolare. Non è così . Eppure, confusi e stanchi
come siamo, specie ora che la nostra parte comincia a soffrire
sulla propria pelle, dobbiamo abbandonare ogni narcisismo del
dolore così tipico dell'anima italiana, e semplicemente agire:
salvare i kosovari, sopportare la pena storica di vedere i serbi
colpiti, tenere per quei ragazzi prigionieri. Bisogna essere forti,
in guerra.
