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IL CASO UNA CITTÀ SANTA E DIVISA Gerusalemme, ferita aperta Scontro s ul trasloco dell'ambasciata Usa

giovedì 26 ottobre 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NON sarà proprio , ma certo giù di lì : sia il Senato che la Camera dei deputati americani hanno votato a grande maggioranza che gli Stati Uniti sposteranno la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. La nuova legge stabilisce che la politica statunitense è a favore di una capitale d'Israele e che il traguardo cronologico per la costruzione del novello monumento all'amicizia israelo- americana è il 1999. Il Senato ha approvato 93 voti contro 5 e la Camera 374 a 37. Bill Clinton ha trenta giorni per far sapere se intende firmare o meno la rivoluzionaria decisione del Congresso, ma è opinione generale che lascerà passare il prossimo mese in silenzio, cosicché il voto diventi automaticamente legge dello Stato. La scelta americana appare drammatica, controversa: la sua eco in queste ore rimbalza sulle cupole, sui minareti, sulle chiese della Città Santa alle tre fedi monoteiste, e da esse, nei secoli, tanto insanguinata. Non è un caso che la legge stessa sia arrivata mitigata alla sua conclusione rispetto a quando, circa un anno fa, la concepì il senatore repubblicano Bob Dole: Clinton può rimandare la costruzione dell'ambasciata se riterrà che farlo sia sicurezza nazionale. E la legge è intessuta di termini abbastanza ambigui da consentire all'amministrazione americana di spiegare, tramite le sue ambasciate, agli Stati arabi, che di fatto l'operazione verrà proposta solo alla fine del processo di pace. Infatti all'ultimo minuto è caduta una clausola che proibiva di iniziare la costruzione dell'ambasciata oltre il 1997 e che stabiliva che il 2002 era l'anno in cui per forza o per amore gli Usa avrebbero dovuto aprir bottega a Gerusalemme. Più importante di tutto, è il fatto che la legge consente a Clinton di promettere che gli americani risiederanno a Gerusalemme Ovest, ovvero nella parte in cui risiedono i 405 mila cittadini ebrei e non ad Est, dove vivono 150 mila palestinesi che ambiscono a tirar su un muro vero o ideale per suddividere la città fra due poteri. Quanto sono felici gli ebrei? Quanto sono irati gli arabi? Il Medio Oriente rende tutto sempre molto più complicato di quanto la logica causale del pensiero occidentale suggerisca. Sia Ytzhah Rabin che Shimon Peres hanno avuto reazioni di soddisfazione: era ora che le grande ambasciate prendessero la via della città proclamata capitale di Israele fin dal 1948, quando era ancora per metà sotto la sovranità giordana. La città è quella dove comunque risiede la Knesset, dove c'è il governo e i ministeri, dove ogni dignitario straniero compie la sua visita di Stato; la città che come ha detto Peres, è stata soltanto, nei secoli, capitale degli ebrei, e mai dei musulmani. Eppure si sa che per mesi Rabin ha preso le distanze dall'iniziativa americana, temendo che potesse imbarazzare il governo Clinton, tanto impegnato nel processo di pace; e anche vedendola come uno sgangherato scavalcamento a destra da parte dell'ebraismo americano e di chi vuole i suoi voti. È ormai al settembre di due anni fa, alla prima firma di pace di Washington, che si è scatenato in America un gruppo deciso a mettere i bastoni fra le ruote al processo di pace. Non si contano gli anatemi che i rabbini americani hanno lanciato contro il governo Rabin-Peres, chiamandoli traditori, bugiardi, finti ebrei. Rabin, nella sua ultima visita di pace a Washington, ha affrontato personalmente i leader americani, chiedendo loro con parole dure di vivere e lasciar vivere, e di non rovinare l'antica amicizia israelo- americana. A quanto sempre Ytamar Rabinovich, l'ambasciatore israeliano negli Usa, ha steso recentemente un rapporto per il suo ministero in cui spiega che l'ondata di destra fra gli ebrei americani è passata, e che la legge su Gerusalemme fa parte di un corso diverso, moderato, blando, tutto inteso a favorire e non a ostacolare il processo di pace. Gli arabi hanno subito reagito con parole dure alla decisione americana: Arafat, Feisal Husseini, i capi tutti dei Paesi arabi, dall'Arabia Saudita all'Iran (che naturalmente usa i toni più furiosi, chiamando un miliardo di musulmani a riprendersi Gerusalemme) hanno ripetuto che gli Usa non hanno il diritto di mettere così i piedi nel piatto della più controversa questioni aperte dal processo di pace, che la ferita si farà purulenta, gli animi violenti, e che le cose peggioreranno invece di migliorare. Ma chi è abituato a leggere fra le righe del linguaggio della politica mediorientale vede che di fatto (e l'aperto, ininterrotto sorriso di Arafat durante la conferenza di Harvard da cui ha lanciato le sue proteste, lo conferma) gli Usa non hanno inficiato per niente la possibilità che Gerusalemme Est sia domani parte di un negoziato sull'assetto definitivo della pace mediorientale, e che la cittadella sacra alle tre religioni seguiti ad essere discussa, contesa, e forse alla fine spartita; l'Orient House, di fatto sede gerosolimitana dell'autorità (o se si vuole del governo) palestinese è ormai meta fissa delle visite di tutti i dignitari stranieri, con buona pace d'Israele che quasi non protesta più . Era ridicolo in fondo che gli Usa seguitassero a fingere che la Knesset fosse, invece che a Gerusalemme, a Tel Aviv. Fiamma Nirenstein

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