IL CASO SGOMENTO IN ISRAELE Tre scola ri alla radio: ci spiace ma non ci tocca
lunedì 5 maggio 1997 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME NOSTRO SERVIZIO Oggi alle 11, come ogni anno nel giorno
della memoria della Shoah, la sirena ha suonato in Israele, il Paese
degli ebrei. Come in una catena ideale che lega il passato al
presente, le ombre ai corpi dei vivi, il ricordo di Auschwitz ha
immobilizzato nelle strade delle città e nelle autostrade, nelle vie
suburbane, ogni movimento. Tutto tace, si sente solo il vento, che in
ebraico si dice Ruah, come Spirito e anche come Fiato Divino. Ma c'è
chi non si è fermato, chi non ha partecipato alle molte cerimonie in
tutto il Paese. In parte non è stato una sorpresa: i religiosi di
Mea Sharim, il quartiere ortodosso di Gerusalemme, hanno continuato
nelle loro cose, loro che non fanno il servizio militare e che non
partecipano, ritenendolo sacrilegio, a nessuna forma etico-collettiva
dello Stato d'Israele, per loro impossibile sino alla venuta del
Messia. Questo ormai si sa: perché rigetta tutto intero il sionismo,
è logico scansare uno dei fondamentali suoi pilastri, l'Olocausto,
una delle basi del significato e del senso del collettivo dello Stato
ebraico. La sorpresa però , c'è stata, ed è venuta da un liceo di
una zona centrale di Israele, lo Sharon, zona benestante ancorché
suburbana. Quale ironia della sorte: quest'anno la memoria della
Shoah è stata particolarmente dedicata ai milioni di bambini
trucidati dai nazisti nell'Olocausto. Ed ecco che tre ragazzi
israeliani, a nome di altri ancora di origine sefardita, con le loro
voci infantili e il loro accento di sabra cioè di israeliani nati
qui, hanno detto alla radio più o meno così : non parteciperemo a
tutte queste celebrazioni che si ripetono di anno in anno sempre
uguali. Perché ? Perché ci dispiace molto che ci sia stato
l'Olocausto, ma esso non ci tocca direttamente, e la sua memoria non
ci sconvolge in modo particolare. I nostri genitori sono venuti
dall'Africa, dal Marocco, dalla Libia, sono sefarditi] La loro storia
è molto diversa da quella degli ashkenaziti. L'Olocausto è un
problema loro, i sefarditi hanno la loro storia, i loro propri guai.
Così hanno parlato sollevando un'ondata di stupefatto dolore e di
reazioni ufficiali Tomer, Limor, Livnat, nati, secondo l'ideale del
sionismo, per riscattare il popolo ebraico dalla sua bimillenaria
vicenda di persecuzioni, oltre che per vivere sulla terra ad esso
destinata da Dio e dalla storia. Così almeno pensavano Ben Gurion e
i suoi compagni, per i quali la leadership della parte ashkenazita
non era affatto un problema, un punto interrogativo, ma semplicemente
un dato di fatto del tutto positivo da cui partire per creare lo
Stato, per creare un epos collettivo, fatto di socialismo, fatto di
bildung, fatto della memoria della Shoah, e non certo costruito sulla
festa della Mimuna, o sulla grande tradizione della Hamula, la
famiglia sefardita allargata, e tanto meno sulla religiosità degli
amuleti, o su tante altre forme di vita proprie del sincretismo
arabo-ebraico. I sefarditi certo soffrirono terribilmente quando nei
kibbuz in nome dell'ebreo moderno, del grande costruttore, venivano
loro tagliati i riccioli laterali. E ancora soffre, quando la pelle
scura viene sia pure affettuosamente sottolineata, o addirittura
sbeffeggiata. O quando Arieh Deri, uno dei capi del partito religioso
dello Shas è stato, uno fra i quattro accusati insieme a Bibi
Netanyahu, che ha mandato tutti assolti, inquisito invece dalla
procura generale. Lo svantaggio viene ormai avvertito come
discriminazione, lo scarto di partenza come un'offesa inferta
volontariamente dalla maggioranza forte, europea. Tuttavia, fino a
qualche anno fa prima dell'inizio del processo di pace, il senso
della salvezza collettiva di Israele, l'idea della solidarietà ,
dell'accoglienza agli immigrati, del donare la vita per lo Stato,
dell'esercito, del miracolo della rinascita nazionale ebraica,
avevano messo addosso anche ai ragazzi sefarditi la camicia bianca
delle grandi occasioni nel giorno della Shoah, e li avevano
inquadrati nelle grandi manifestazioni, così da sentirsi
affratellati nella tragedia del genocidio. Ma quando un popolo si
normalizza, quando il benessere avanza, quando il consumo prende il
posto dei valori, quando si misura con insistenza il proprio essere
su ciò che si possiede, allora il senso del collettivo rischia di
sbriciolarsi, il senso del sacro si allontana. Ieri il vento, Ruah,
ha soffiato, ma molti non lo hanno voluto sentire. Fiamma Nirenstein
