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IL CASO. Oppositori torturati, accuse e sospetti: da eroe a tiranno? Arafat, l'ora del disinganno A sinistra vacilla un altro mito

lunedì 12 agosto 1996 La Stampa 0 commenti
I ragazzi gridavano il suo nome per la strada nei cortei degli Anni 70 e 80; la sua kefiah era un carissimo feticcio, un capo d'abbigliamento simbolico di miseria e nobiltà , di cittadinanza (rivoluzionaria, palestinese, terzomondista) e insieme di clandestinità , pronta a calarsi sul viso nel sogno della lotta antimperialista e anticapitalista. Arafat è stato un mito del nostro tempo, un fenomeno mediologico straordinario; ogni tratto della sua controversa storia di leader è divenuto oggetto di culto per l'Occidente di sinistra. C'è voluto il bacio della normalizzazione (sia pure parziale) della pace, delle elezioni, dello stabilirsi di un potere territoriale palestinese fatto di denaro e di trentamila uomini delle forze di sicurezza, oltre che di uffici, di posti di lavoro, di stipendi, di strutture civili, di mezzi di comunicazione gestiti in proprio, perché Arafat apparisse nudo nella calura mediorientale: un rais che mette in galera senza processo giornalisti infedeli, lascia uccidere nelle carceri nemici politici, favorisce amici corrotti, lascia che corruzione e violenza invadano il suo piccolo reame. Non c'è sconto per Arafat nella sua discesa dal firmamento dei miti, nonostante le terribili difficoltà che incontra con Hamas, con i fanatici dell'Islam, con tutti i suoi nemici interni e del processo di pace, con il nuovo governo di Netanyahu e le sue durezze. L'intellettuale palestinese Edward Said dall'esilio lo chiama fiducia e i quattrini accordatigli, definisce i suoi uomini canaglie; lo condanna a essere la nostra causa. Come il Che Guevara, come Fidel, come Sandino, come per un momento i mullah iraniani in lotta contro lo Scià , Arafat fu perdonato dalla sinistra di ogni e qualsiasi pecca: stragi di bambini come quella di Maalot, o eccidi di civili innocenti come quello delle Olimpiadi di Monaco; o legami impuri come quelli con il potere sovietico o addirittura con Saddam Hussein; vendette e faide interne al suo stesso popolo. Arafat entrò nell'82 a poche settimane di distanza dall'attentato palestinese al Tempio di Roma in cui perse la vita Stefano Tachet nel Parlamento italiano e in casa di Pertini portando la pistola al fianco. Di lui si conservava, lavando via i cattivi pensieri, sempre e soltanto da una parte l'immagine rocambolesca (le sue sette vite, la fuga dal Libano, la magica, benedetta capacità di sopravvivere persino alla caduta del suo aereo, quasi una predestinazione alla vittoria); e la sua mitica e sempre evocata . Ogni estremismo veniva attribuito ad Abu Nidal o a Ahmad Jibril, e Arafat restava sempre e comunque soltanto la pazienza, la tenacia, la capacità politica di mediare. Il volto di Arafat è apparso sui muri delle nostre università occupate e nelle camere da letto degli studenti come specchio da una parte delle simpatie romantico-terzomondiste del mondo cattolico e di quello comunista; e per converso di un inconsulto, indistinto odio anti- israeliano, venato d'ignoranza, confuso, macchiato di temi antidemocratici e antisemiti. Arafat è stato collocato dai giovani degli Anni 70 e 80 in un'aura metastorica da cui ora è stato costretto a scendere materializzandosi. Ed ecco che egli appare al centro di un misero e controverso semistaterello mediorientale, preda di mille difficoltà , che nuota in acque paludose. La corona del carisma cade tanto più ingenerosamente quanto più a suo tempo sono stati ignorati i limiti di un uomo che comunque è a tutt'oggi il capo, il simbolo, anche forte e coraggioso, dell'identità palestinese, comunque l'uomo che ha saputo fare la pace con l'odiato nemico. A suo tempo nessuno volle sapere quanto a dir poco inaccurata fosse la gestione del molto, forse troppo danaro dell'Olp che proveniva in gran parte dalle casse sovietiche; oggi ci si stupisce che Arafat stringa i cordoni della borsa e che la corruzione dilaghi. Allora l'estremismo e l'educazione all'odio e talora all'omicidio non furono prese in considerazione e oggi fa specie e scandalizza l'omicidio in carcere del dissidante Mahmoud Jumayal. Forse, però , invece di compilare ogni giorno la nostra lista di buoni e di cattivi, sarebbe meglio, dunque, accingerci a una ricostruzione storica e realistica, a una lettura sincera di questo personaggio, che resta comunque uno dei grandi monumenti ideologici del nostro secolo. Fiamma Nirenstein

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