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IL CASO LA SICUREZZA IMPOSSIBILE La grande tentazione di Rabin ritira rsi nel fortino Israele

lunedì 10 aprile 1995 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME SMARRIMENTO. Israele, che ha per pietra angolare il concetto della sicurezza del popolo ebraico, che è nato deciso a riscattare per sempre la storia giudaica del sentimento di inevitabile e continuo pericolo, si trova forse per la prima volta dal 1948, anno della sua fondazione, a non saper che fare; a percepire, a causa degli attacchi omicidi-suicidi che si susseguono implacabilmente, un senso di vuoto, di perdita. Di smarrimento, appunto. Amnon Shahat, il capo di stato maggiore, l'ha ripetuto a una folla di giornalisti turbati e irritati quanto mai: a una vera e propria guerra col terrorismo. Non finirà da un momento all'altro. Non aspettatevelo. Continuerà a lungo. Non abbiamo nessuna soluzione militare. Occorre piuttosto che i palestinesi si impegnino a fondo: hanno 17 mila uomini nella polizia, devono essere più determinati, più aggressivi, nella lotta contro il terrorismo islamico. Shahat ha descritto con sgomento la determinazione suicida con cui le due macchine cariche di tritolo si sono gettate addosso ai veicoli israeliani a Kfar Darom e Netzarim. Sono uomini che vogliono soltanto morire uccidendo, che fino a un momento prima guidano tranquillamente un'automobile, e l'attimo dopo si immolano gridando Allah Hu Ahbar in un'orgia di sangue. Sono : non sono i soliti terroristi che si combattevano coi servizi segreti, che si potevano bloccare per tempo, che ci tenevano alla pelle, che si conservavano magari per il prossimo attentato, o per denaro, o per fede politica. Qui ha un bel dire Rabin, come si è subito affrettato ad affermare col volto stanco e distorto dall'angoscia: di pace continua. È ormai l'ennesima volta che lo ripete dopo una strage di giovani ebrei. Ormai per la gente è un ritornello che stona in modo terribile con l'esperienza di tutti i giorni. Alla radio un testimone interrogato ha detto: mi annunciano la pace, e io vedo solamente terrorismo; un terrorismo nuovo e terribile che non riusciamo a combattere. In più non capisco perché ci odiano sempre di più , proprio adesso che cerchiamo di dargli quello che chiedono. Al momento si discutono due chiavi immediate del problema: una è la separazione quanto più effettiva dai palestinesi, con recinti magnetici, blocchi di polizia, l'unica vera arma che Rabin ha finora saputo usare mentre percorre il sentiero della pace. Infatti ieri ha fatto notare che i terroristi hanno agito dentro la zona di Gaza, e non al di qua della Linea Verde. L'altro punto, il più bruciante, è il possibile abbandono, come ha subito commentato il ministro Yossi Sarid, degli insediamenti interni alla Striscia, anche se l'accordo di Oslo non lo prevede affatto. Ma si può farlo? Si può abbandonare a se stessi, oggi come oggi, cinquemila cittadini israeliani in un clima di odio accanito e inesausto? Per farlo bisognerebbe prendere delle risoluzioni di grande rilevanza, che prevedano forse l'evacuazione della zona, e che quindi segnerebbero in questo momento un colpo molto grosso a favore dei terroristi, che si vedrebbero così incitati e sostenuti dai successi ottenuti. Tutti i ministri di sinistra, il capo dell'esercito, il Capo dello Stato, si rivolgono un po' pietosamente alla polizia palestinese perché faccia il suo dovere, perché creda un po' di più nella lotta al terrorismo, perché combatta al suo fianco contro la Jihad e Hamas. In questo modo chiedono un segnale ad Arafat di grande impegno verso il processo di pace. Ma Arafat è a sua volta in difficoltà a causa del ritardo di Israele nell'ottemperare agli accordi di Oslo. Ed è difficile anche credere che Arafat possa buttarsi anima e corpo a cercare di catturare i terroristi, date le scene di soddisfazione, con canti e balli, che i palestinesi abitanti di Gaza hanno messo in atto ieri pomeriggio sui luoghi stessi degli attentati, ancora bagnati di sangue. È difficile immaginare che Arafat voglia rinunciare a quella parte del consenso popolare che, se non è favorevole, tuttavia non è radicalmente contrario al terrorismo. D'altra parte, se vuole il processo di pace, Arafat dovrà acchiappare i terroristi di Hamas e della Jihad: anche lui è in un bel guaio. È sintomatico che in questa confusione il presidente della Repubblica Ezer Weizman, un personaggio bonario, liberale, di sinistra, con un grande passato militare, abbia di nuovo messo in discussione dal suo alto seggio il processo di pace dicendo che forse occorre un ripensamento, fors'anche un intervallo. È un modo un po' arbitrario di farsi interprete dell'espressione popolare, ma piuttosto realistico. Lo smarrimento di Israele è in cerca di appigli: e l'unica arma di Israele, è grave dirlo, è il processo di pace. Fiamma Nirenstein

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