IL CASO LA SCOPERTA DI ARAFAT Un sultano per la Palestina Il leader d ell’Olp nel salotto israeliano
domenica 19 giugno 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME NOSTRO SERVIZIO En attendant Arafat... Fra una settimana
o due, ma forse anche fra meno tempo, forse è solo questione di ore,
sulla terra battuta di Gaza e poi nella grande e assolata casa di
Gerico, appena ombreggiata di palme e bougainvillee, farà la sua
fisica apparizione il , si incarnerà il fantasma
della rivoluzione palestinese. Arafat, con la piega della kefia
sempre al centro, con sulla fronte la stella del miracolo palestinese
e della inverosimile capacità di sopravvivere perfino cadendo con un
aereo nel deserto (chi altri avrebbe potuto?), sta per arrivare su
quel pezzo di terra vero, e veramente palestinese ora, per fare il
presidente di fatto, e non di nome di un’entità territoriale
autonoma: con la polizia, gli ospedali, le scuole.... È terribile il
momento in cui i sogni stanno per avverarsi, si sa; e quindi i
palestinesi di Gerico e di Gaza sono agitati, preoccupati,
sospettosi. I politici si dicono contenti, ma la gente si interroga:
rappresentarci, di dirigerci, di starci ad ascoltare, di essere
democratico. Questo è il tenore delle preoccupazioni palestinesi.
Ma anche chi protesta sa che il vecchio Abu Ammar è tuttora, in ogni
caso, l’unico personaggio in grado di tenere insieme le infinite
tendenze politiche dei palestinesi, dei ragazzi, dei vecchi, degli
orientaleggianti, degli occidentaleggianti, di chi anela la
democrazia, e di chi invece inneggia alla teocrazia. Arafat per
adesso è per amore o per forza l’unico leader che calpesterà la
polvere vera del West Bank con delle vere scarpe che lasciano orme
pesanti. Gli israeliani, salvo gruppi di pazzi che appendono
manifestini texani di agli alberi con su effigiato il volto
di Arafat e la cifra della taglia, fanno di tutto per elaborare
l’inevitabile prossimo futuro. La madre legittima dell’inconscio
collettivo, la televisione, che fu istituita qui molto tardi e contro
il parere di Ben Gurion e poi trasformata dall’istinto pedagogico
ebraico in strumento educativo, due sere or sono, in prima serata,
durante il popolare programma Uvdà della giornalista Ilana Dayan,
ha superato tutti gli ultimi programmi fatti sul nemico numero uno
divenuto da poco un signore che Rabin e Peres chiamano .
Infatti, sotto gli occhi ammaliati del pubblico israeliano,
lungamente sono state sciorinate le immagini di un programma
intitolato girate da una troupe
israeliana. Si è visto Arafat nell’intimità , mangiare, dormire,
ridere, discutere. Eppoi, ecco, rotonda ma fresca, Suha, la bionda
moglie del leader; e il telespettatore israeliano ha potuto volare
dalla casa di Arafat fino a Oslo, su un piccolo aeroplano privato. A
Oslo lo si è seguito durante incontri politici e privati, stanco
morto, o improvvisamente e bizzarramente contento. A casa sua lo si
è seguito in una specie di summit patriarcale, in cui gli si
gettavano fanciullini fra le braccia e lui benediva i capi delle
varie grosse famiglie palestinesi che uno a uno quasi si
genuflettevano di fronte a lui. I colori della sua tavola imbandita
erano arabi, fortissimi: l’agnello e il pollo, il pane e i pomodori,
le lenticchie, la frutta tagliata a spicchi rossi e gialli che Arafat
metteva con le sue mani in bocca agli ospiti più cari; il riso nel
vassoio, lo sbocconcellare senza etichetta dei pranzi familiari con i
collaboratori. Niente donne intorno. Le guardie del corpo sempre
invece sedute vicinissime, più simili a guappi napoletani che a
poliziotti, con le scarpe a punta. Interessatissimi mentre a Oslo
aspettavano fuori della porta, ad una conversazione con i
guardiaspalle dell’ex presidente americano Carter:
Gerico diceva un americanone nero
la macchina e faceva con le braccia il segno di pilotare su e giù
per le curve desertiche delle strade vicine a Gerusalemme. Il giovane
palestinese lo ascoltava contento: probabilmente lui a Gerico non
c’è mai stato. Sui muri della casa di Arafat gli israeliani hanno
potuto vedere effigiata in grandi manifesti Gerusalemme; la
televisione era coperta da un tappetino; molti i fronzoli orientali,
apparentemente doviziosi ma in realtà modesti. Si è visto apparire
in fondo a un corridoio scuro una ridente cameriera con grembiule
bianco e una pila di lenzuola in mano, candidi: uno squarcio, per
noi, di una casa napoletana, benestante e all’antica. Moltissimo si
è visto Arafat aggiustarsi quella pieghetta perfetta in mezzo alla
kefia; Suha indossava, molto dignitosa e anche occidentale, un
vestito giallo brillante pieno di bottoni tondi; un cerchietto alto
tratteneva i capelli chiarissimi lunghi e lisci. Parlava un arabo
unito a un francese fluente, che la rendeva accessibile. E la si è
vista ripresa mentre il marito si trovava ad Oslo, afferrare un fax
appena giunto da Gaza, attaccarsi al telefonino, leggere in arabo al
coniuge lontano la missiva urgente. Col comportamento modesto ma
confidenziale sottolineava il ruolo di moglie e insieme di
combattente per la causa, impegnata giorno e notte ad aiutare un
uomo, che come lei dice, ha tempo e occhi solo per il proprio fine,
per il proprio progetto. Arafat è apparso agli israeliani, sul
teleschermo, né più né meno che la proiezione continua dell’uomo
pubblico. Eppure il popolo d’Israele ci ha voluto vedere molto ma
molto di più . Subito dopo lo show gli amici si sono ansiosamente
chiamati al telefono per scambiare opinioni, per confessare emozioni.
Tutta quella confusione di gente, di cibi, di colori orientali li ha
comunque molto colpiti:
saperne molto di più . Però , hai visto? Mi ha stupito che quando
alla fine del pasto qualcuno ha chiesto un caffè si è spiegato che
in casa caffè non se ne tiene, perché Arafat non ne beve. Fiamma
Nirenstein