IL CASO L'ALTRA SENTENZA Piccolo killer d'un Grande In frantumi il so gno di diventare un eroe
giovedì 28 marzo 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV È stato un giorno grigio e freddo al tribunale di Tel Aviv,
poco lontano dall'ospedale dove morì Rabin. Non c'è stata la festa
mediatica in cui Ygal Amir avrebbe potuto fare, dopo la condanna a
vita, un'efferata concione, o addirittura rivelare a tutta la stampa
del mondo qualche mistero. Il processo lungo tre mesi all'assassino
di Rabin si è concluso con una giornata triste, in cui si è
avvertita soprattutto la grandezza fisica e morale di
non c'è più , come ha detto il giudice Levy e come ha ripetuto il
segretario di Rabin, Eitan Haber:
come questa, ce lo potrà più restituire. L'assenza di quel grande,
dopo la prima curiosità per l'assassino, è una pietra di paragone
anche fisica rispetto all'esiguità del suo carnefice, esile nella
camicia bianca, l'espressione vacua, gli occhi gonfi di sonno,
miserabilmente convinto delle sue verità dogmatiche su Dio e sulla
Terra ripetute con voce da ragazzo yemenita. Il personaggio ieri è
andato in frantumi, ora che è condannato alla cella, e finalmente
quindi anche a sparire; sembra ancor più impossibile che
quell'innocente un po' idiota, con il sorriso narcisista da figlio di
mamma e la parola sempre in bocca, che sbadiglia mentre il
giudice legge le motivazioni della sentenza che lo chiude in carcere
per tutta la vita, che ammicca agli amici in sala, che lancia
proclami alla stampa di tutto il mondo, che ha fatto esplodere la
falsa verità che un ebreo non uccide mai un altro ebreo, sia quello
che ha sparato tre pallottole a Yitzhak Rabin a bruciapelo, alla
schiena, a freddo, condannando a morte un Premio Nobel, un grande
soldato, il padre della pace. Il giudice Edmond Levy e gli altri due
magistrati che lo affiancavano lo hanno lasciato parlare brevemente
alla fine del dibattimento. Prima il giudice aveva lungamente letto
con voce monotona, neutra, anche eccessivamente piana, tutte le fasi
del primo processo politico importante della storia d'Israele, mentre
l'aria dell'aula vibrava di tensione e il circuito interno riprendeva
le fasi del dibattimento, la stampa mondiale si asserragliava attorno
ai teleschermi del circuito chiuso per cercare di vedere qualcosa. Un
racconto lineare, la storia di un assassinio spietato, gelida come lo
sono tutte le storie dei veri fanatici. Quando Amir ha ripetuto di
avere agito in nome di Dio, per il bene d'Israele, la sua voce è
suonata pallida e fessa rispetto all'enormità del suo atto e del
rinnovato dolore d'Israele. Alla fine, quando tutti e tre i giudici,
prima di pronunciare la sentenza a vita, hanno parlato del sentimento
epico del lutto nazionale, e il giudice, anche lui un religioso con
la kippah, ha definito improprio, violento, illegittimo, l'uso della
religione ebraica fatto da Amir, per un delitto gelido e narcisista,
negandogli qualsiasi dignità religiosa o politica, e ha detto che il
processo non ha avuto niente di politico; quando l'altro giudice ha
citato Camus, dicendo che un uomo che si crede Dio e prende la vita
di un altro di fatto si comporta in maniera subumana, si è sentita
di nuovo vibrare tutta la grande aspirazione etica dello Stato
ebraico delle origini. Amir non ha potuto, e nessun principio
garantista stavolta ha avuto la meglio, avere l'ultima parola nel
processo, dopo tante e contraddittorie chiacchiere estremiste che ha
fatto nel corso di questi tre mesi. Il giudice infatti, dopo aver
pronunciato la sentenza, l'ha circondato di poliziotti e l'ha fatto
portare via. E in questo ha espresso, quali che possano essere ora le
critiche, una verità che nonostante tutti i contorcimenti del
processo era ed è sempre la stessa: Amir è un assassino confesso,
che ha persino reinterpretato per la polizia il suo stesso omicidio,
e ha da spiegare ormai soltanto alcuni assiomi ideologici, veri quasi
solo per lui, ormai troppo noti a tutti. È come Yahya Ayash, ha
detto in preda alla passione un altro personaggio ricomparso ieri
all'orizzonte, Shimon Sheves, il capo gabinetto di Rabin: È stato
trattato fin troppo bene. In realtà il processo è stato gestito
con estrema cura garantista, nonostante Ygal Amir lo punteggiasse
delle sue continue fiere confessioni, dalle sue autoesaltazioni
politiche. Tre volte gli avvocati di Amir sono stati cambiati, la sua
linea di difesa si è modificata: da assassino che quando ha ricevuto
l'annuncio della morte di Rabin ha proclamato
Ygal Amir ad uccidere Rabin, ma, nascosto, un altro killer avrebbe
compiuto il lavoro, e il processo, scorretto e bugiardo, non ha
voluto prendere in considerazione gli indizi. Ma è una tesi
inconsistente e stanca, mentre ha ancora tutta una sua forza il
dibattito sull'incapacità dello Shin Bet, i servizi segreti interni,
e l'incerto uso delle infiltrazioni degli uomini come Avishai Raviv
(il famoso ) nella destra. Quando il processo si è
iniziato, le indagini per campione suggerivano che circa il 17% della
popolazione si sentiva abbastanza vicina ai sentimenti di Ygal Amir;
non sappiamo se ancora oggi questo sia vero. Ma la madre, il padre,
la sorella dell'assassino, ieri presenti in aula, si sono guardati
bene dal proclamarne l'innocenza o le ragioni. Si sono invece
limitati a invocare su di lui la pietà divina, segno che non sentono
dietro di sé un seguito politico. Di fatto un gruppo fanatico
irriducibile, tuttavia ancora esiste. La giustizia israeliana prima
ha cercato di portarlo a più miti consigli con la bontà garantista
del processo. Poi la verità semplice e terribile si è fatta strada
da sola: Rabin è stato assassinato, Ygal Amir è il suo feroce
assassino. Fiamma Nirenstein
