IL CASO DUE SENTENZE SUL LINCIAGGIO DI GAZA La maggioranza è con lui, Sharon si ribella: un militare non deve chiedere pietà Il figlioletto del soldato pestato va in tv e divide Israele
mercoledì 21 dicembre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME CI mancava solo un piccolo Messia di 14 anni in questa
ennesima discussione di vita e di morte fra israeliani: giornali,
famiglie, dibattiti televisivi hanno ripercorso ogni giorno la strada
di Ramallah dove il soldato della Riserva Shmuel Meir che aveva perso
la strada ha quasi lasciato la pelle. Urla, insulti, immagini che
ripetono all’infinito la faccia insanguinata e stupefatta di Meir
mentre gli piovono in macchina selci ciclopici, le facce forsennate
degli uomini di Hamas che, uno col coltello levato, gli occhiali, la
cicca in bocca, l’altro con un bastone infilato nel finestrino rotto
a pungolare il corpo già ferito di Meir infieriscono ancora e
ancora. Meir che si mette la testa fra le mani e grida senza cambiare
espressione e senza muoversi , pietà in arabo. E la folla che
si assiepa e partecipa al linciaggio. E lui sempre più immobile,
come pietrificato. E i cameramen che continuano a filmare, perfino,
sembra vedendoli, con una certa soddisfazione. La paura, la viltà ,
la sopravvivenza, l’eroismo, le armi; i media, l’importanza di
un’immagine rispetto alla vita umana. Ce n’è di che litigare per
giorni. E così fa la maggioranza degli israeliani. Urlano uno contro
l’altro, perché non c’è chi non si identifichi, chi non possa
trovarsi o non si sia trovato in una situazione analoga, o non ci si
sia trovato il suo migliore amico. E poi su tutta questa storia si è
posato un piccolo Messia, come arrivano i Messia d’oggi, sulla
frequenza della televisione, primo canale. È il figlio
quattordicenne di Shmuel Meir, di nome Liran, un bambino con le gambe
troppo lunghe, la faccia levigata, moro di capelli, le labbra
carnose, la madre e i due fratellini seduti nella platea del talk
show più popolare, quello di Dan Shilon. Lui, invece, sta proprio
sulla poltrona degli imputati, davanti all’intervistatore, e con una
voce piena di stonature risponde alle accuse contro il padre; e quel
che più conta, con parole dritte e semplici spiega, a chi la vuole e
a chi non la vuol sentire, l’ideologia antieroica dell’israeliano che
sta nascendo, del soldato di domani:
cosa avrei fatto al posto di mio padre. Non c’è molta scelta quando
sei in una situazione di vita o di morte. Io non avrei saputo restare
calmo come mio padre: i bambini piangono, si raccomandano, si
agitano. Io avrei fatto questo, probabilmente. Molti hanno detto di
tuo padre che è stato vile, perché non ha sparato, non ha
reagito... L’intervistatore parla a Liran senza pietà , come a un
grande. E lui risponde senza paura, con la voce che gli trema appena
un poco:
diritto di giudicare senza trovarsi in quella situazione. E allora
cos’è per te un eroe? È una persona che in un pericolo estremo
riesce a sopravvivere senza uccidere nessuno. In platea sono seduti
molti soldati: sempre, in Israele, in ogni occasione pubblica, li si
invita per incoraggiamento, per farli sentire parte della vita
civile. L’intervistatore chiede a Liran niente meno che il miglior
consiglio da dare a chi si trova sotto le armi. Liran reagisce
stupito. Ripete che non ha diritto, che non sa. Poi però spara:
d’orgoglio del figlio dell’uomo più discusso d’Israele; dalla sua
dolcezza, così seducente per gente che deve stringere i denti tutti
i giorni. Per un attimo, idealmente, il bambino della pace e il
generale Ariel Sharon (il più agguerrito nel condannare nei giorni
scorsi il comportamento del soldato che non ha sparato di fronte al
pericolo di vita) si ergono l’uno di fronte all’altro. Ognuno in
Israele sa che bisogna alle volte sparare, ma nessuno lo desidera
più . Eppoi anche Liran non ha mostrato solo tenerezza: richiesto di
un messaggio agli arabi che hanno attaccato suo padre, prima dice
sono i giudici, gli uomini importanti per trattare con loro. Però
poi aggiunge
non parlo agli animali. La bocca da bambino trema sempre di più :
c’è troppo futuro, troppo passato con cui avere a che fare. Ed anche
un presente sconcertante: le immagini degli uomini dei media che
hanno detto neppure una parola, non una, per cercare di confortare
mio padre in quella situazione; non dico che avrebbero dovuto fargli
scudo coi loro corpi, ma almeno una parola. Gli avessero detto:
coraggio. Per Liran certo questa immensa deiezione davanti a tutta
Israele vale quanto una buona seduta di psicanalisi. Ma il Paese
seguita a leggere nel comportamento di Meir non il coraggio o non
solo il coraggio della resistenza passiva, quanto la profonda
demotivazione che rende gli uomini di Tsahal, l’esercito, preda
frequente di attentati come quello di ieri in Libano: la tecnica del
nemico è sempre più aggressiva da quando Hezbollah e Hamas sono i
protagonisti della guerra anti-israeliana. E il processo di pace
rende i soldati più fragili, più dubbiosi. Chi pensa che Meir
doveva sparare non è quindi necessariamente un uomo di destra, un
seguace di Sharon: è un individuo perplesso sul futuro, consapevole
dello stallo del trattato di Oslo, che si domanda se sia il tempo di
abbassare la guardia di fronte all’integralismo islamico. Fiamma
Nirenstein