IL CASO AGGUATO ALLA PACE Il lento veleno della Gli ultrà col piscono sempre più in alto
martedì 11 ottobre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME YOEL Moshe Salomon, quella stradina ormai insanguinata
nel quartiere Nahalat Shevat, che le immagini televisive ripropongono
ad ogni edizione delle notizie, è sempre stata il salotto boheme
giovanile di Gerusalemme: l’attentato dell’altro ieri non è uno dei
soliti, come quelli contro le jeep dell’esercito o contro i
che percorrono i Territori. Non c’è gerosolimitano laico sotto i 30
anni che non consideri un po’ sua la straduzza che dalla zona
pedonale finisce al Beit Agron, l’edificio cui fa capo la stampa
internazionale. Ci sono i caffè all’aperto, i ristoranti, i
night-club, i negozietti di piccolo antiquariato. Se non fosse caduta
qualche goccia di pioggia, i tavolini dei bar sarebbero stati
affollati e la strage sarebbe stata grande. Nahalat Shevat è la
Gerusalemme più ebraica, più rilassata, meno in stato d’allarme per
quanto può esserlo la Città Santa. La ferita è grave per Israele.
E tuttavia la radio si tiene su toni mediani, le dichiarazioni degli
uomini di governo sono di tenore moderato: il processo di pace non si
tocca, il terrorismo è ben precedente al processo di pace e,
checché ne dica l’opposizione, certamente non ne è un portato. Noi
continueremo, hanno ripetuto Rabin e Shimon Peres. Il ministro degli
Esteri ha indomitamente riproposto una politica economica che
configuri un nuovo Medio Oriente. E, per la prima volta da molti
anni, il suo amato- odiato primo ministro gli è venuto incontro a
fine intervento per stringergli la mano. Così oggi si confortano e
si tengono vicini i protagonisti di una politica che certo a casa non
raccoglie le rose e i fiori che il proscenio internazionale le
fornisce. In quanto è accaduto ci sono tre elementi pesantemente
simbolici e tali da scatenare la corrida dell’opposizione: il primo
riguarda Gerusalemme, l’attacco portato impunemente nel suo stesso
cuore da due uomini armati fino ai denti. Avevano indosso otto bombe
a mano e intorno ai corpi dei morti (una ragazza di 19 anni, un
giovane arabo di 30 e i due terroristi ambedue sui 20 anni) si è
trovata una corona di 200 proiettili. Un gesto di guerra che mette da
parte gli show politici dei leader arabi, l’intervista del ministro
degli Esteri siriano Farouk Shara alla tv israeliana, le promesse di
re Hussein, le prese di posizione pragmatiche di Arafat, per
riproporre la cupa dimensione della passione religiosa, dell’odio
indomito: Hamas è vivo, e la battaglia per Gerusalemme è e sempre
di più sarà il suo simbolo luminoso e sanguinario. Gli israeliani
in questo caso sono stati simbolicamente rifiutati come interlocutore
dotato di una sua rappresentanza, delle sue delegazioni politiche,
dei suoi falchi e delle sue colombe; sono stati privati del tavolo
della pace. Gli israeliani con questo attentato tornano a essere
ebrei, infedeli, destinati a perire per la spada della jihad. Il
secondo simbolo che turba l’opinione pubblica è la supposizione, per
ora non verificata, che uno dei due attentatori fosse un poliziotto
palestinese. Eppure quelle divise nuove di zecca, quella corsa ad
inquadrarsi finalmente, dopo tanti anni di scontri di strada, nei
termini di un accordo e di un ordine predeterminato fra Israele e
Olp, avevano costituito per gli israeliani un’importante
prefigurazione fantastica di una nuova situazione costruita da
diritti e doveri, di un rapporto possibile, appunto perché ordinato,
coi nemici più stretti, i palestinesi. Alle domande sulla sicurezza,
sul controllo dei confini di Gaza e di Gerico, mille volte i leader
israeliani avevano risposto dicendo:
guarderà i suoi propri confini, impedirà ai terroristi di entrare e
di uscire. Oggi il deputato di destra Rahamin Zeevi può dire:
mi stupisce affatto che il terrorista fosse un poliziotto. Le
organizzazioni palestinesi sono sempre state terroriste, il loro capo
è un terrorista, da loro non ci possiamo aspettare che terrorismo.
Il suo messaggio, al di là dell’estremismo che lo caratterizza, è
la messa in discussione dell’affidabilità , proprio alla vigilia
delle elezioni per l’autonomia di tutti i Territori occupati, degli
interlocutori palestinesi. Quanto meno, si suggerisce, Arafat e i
suoi non hanno il controllo della situazione: il poliziotto di Hamas
avrebbe per esempio potuto sparare persino al suo capo in
un’occasione adatta. Infine, terzo simbolo, la provenienza da Gaza
degli attentatori solleva un vespaio di critiche rispetto alle scelte
originarie del processo di pace: quando Rabin decise di cedere Gaza
per prima, l’argomento principale dell’opposizione consistè
nell’endemico disordine di Gaza che subito, priva di controllo, si
sarebbe tramutata in una grande base terrorista contro Israele. Rabin
e i suoi sostenevano al contrario che abbandonarla sarebbe stata una
grande, salutare cura contro le infiltrazioni nemiche. Queste dunque
le tre pesanti questioni sollevate dall’attentato di Gerusalemme, cui
il governo risponde con la consueta indomita volontà di pace. Che
Israele sia ormai su questa strada è una certezza. Che il mondo
arabo si sia alquanto mosso e abbia dato segni inequivocabili di
essere in marcia verso lo stesso obiettivo, è pur vero. Tuttavia il
Medio Oriente seguita a celare sorprese in forma di scimitarra e leva
sovente voci di guerra in forma di preghiera. Fiamma Nirenstein