Il bacio alla terra dei fratelli palestinesi Ma il « flirt» tra Giov anni Paolo II e Arafat non ferisce Israele
giovedì 23 marzo 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME
« Arafat si è sentito dire tutto quello che desiderava» : così
commentano gli
israeliani alla fine della giornata palestinese di Giovanni Paolo II.
E non
solo: il Papa era anche di buon umore, affettuoso, ha addirittura
passeggiato sulla piazza di Betlemme per mano con Arafat. Ma Shlomo
Ben Ami,
il ministro israeliano degli Interni, un intellettuale che è grande
sostenitore del processo di pace commenta: « Non poteva essere
diversamente,
ce l’ aspettavamo proprio così » . E il ministro Chaim Ramon, che
dall’ ufficio
del premier cura l’ intera visita papale, esclama di non essere
affatto
stupito che il Papa abbia ricordato il diritto dei palestinesi a una
patria,
un punto ormai conclamato in tutti gli accordi di pace. La giornata
ha
incoronato un lungo rapporto affettuoso tra palestinesi e Papa senza
troppo
ferire Israele: un successo diplomatico di Giovanni Paolo II, che qui
chiamano « camminare fra le gocce» anche in senso proprio, perché gli
ombrelli, in questa terra in genere solatì a, restano sempre aperti, e
anche
la cittadina dov’ è nato Gesù è stata beneficata dal sole soltanto per
pochi
minuti a mezzodì .
Quando il Papa è sceso dall’ elicottero si è trovato in un vero e
proprio
Stato autonomo e indipendente. Polizia interamente palestinese,
agguerrita,
elegante, ben addestrata; macchina blindata per lui, trasparente,
pulita,
pronta ad addentrarsi per le stradine di Betlemme tutte ricostruite
in
pietra bianca; ali di folla festante come in ogni altro Paese del
mondo che
l’ accolga con soddisfazione. Nessuna traccia degli israeliani, che
avevano
fornito soltanto l’ elicottero. Il Papa, come fa in ogni Stato sovrano
in cui
arrivi, ha persino baciato la terra dell’ Autonomia, futura Palestina,
anche
se aveva già baciato la Terrasanta di Israele arrivando. La sua
palese
simpatia per Arafat ha poi conferito a questo leader musulmano
un’ enorme
legittimazione nel mondo e a casa sua, tra i suoi correligionari e
anche fra
i suoi cristiani. Questi ultimi, benché abbiano sempre partecipato in
prima
fila alle lotte del popolo palestinese in veste di patrioti
dell’ Intifada
(il capo della Chiesa Latina, monsignor Sabbah, alle volte è stato
così
militante da condurre il Vaticano stesso a sottolineare una
differenza di
opinioni) hanno sofferto torti e scherni specie dalla parte
integralista
musulmana, in particolare a Betlemme. Da là sono stati in gran parte
espulsi. Il Papa quindi era nella cittadina dov’ è nato Gesù non solo
in
mistico pellegrinaggio, ma anche per difendere i 135 mila palestinesi
cristiani in Israele e i 35 mila che risiedono nell’ Autonomia,
dichiarando
con la sua presenza che la loro vitalità in Medio Oriente è
necessaria per
l’ intera Chiesa; e anche, nel mostrare a tutto il mondo la reciproca
simpatia fra lui ed Arafat, a vincolarlo al loro benessere.
Nel campo profughi di Deheisheh, uno fra i più militanti della storia
palestinese con i suoi 16 morti del tempo dell’ Intifada, fra masse di
bambini e di giovani, terza generazione di profughi, per cui ancora
il
processo di pace non vuol dire quasi niente, e che credono nel
diritto di
tornare alle case che lasciarono nel ‘ 48, quasi tutte situate in
Israele,
più che nello Stato palestinese, il Papa col suo paterno carisma, con
le sue
parole di comprensione e di ricucitura (« Il mondo pensa molto a
voi... Avete
diritto a una vita normale... Forse siete voi gli antenati dei
pastori che
per primi videro Gesù » ) ha svolto una funzione maieutica, di
ricucitura fra
il realismo di Arafat e l’ estremismo insito in una condizione di vita
disgraziata come quella della gente di Deheisheh, 10 mila persone in
mezzo
chilometro quadrato. La sua voce aveva un tono che invitava
finalmente a
smantellare, a uscire, verso il nuovo Stato di Arafat. Ma poco dopo
la sua
partenza nel campo ha prevalso di nuovo l’ estremismo, con aspri
scontri tra
fazioni avverse di Al Fatah sedati a stento dalla polizia.
Il Papa non ha toccato nella sua giornata palestinese argomenti
spinosi come
il diritto al ritorno; si è guardato bene dal paragonare i tormenti
dei
profughi a quelli degli ebrei durante l’ Olocausto, nonostante essi
chiamino
Nachba, ovvero Shoah, la tragedia da cui sono stati investiti nel
‘ 48. Non
ha preso in considerazione la fantasia teologica di un Gesù
palestinese oggi
in voga; non ha mai citato il nome di Gerusalemme, che invece Arafat
e i
suoi uomini richiamavano continuamente.
Ha schivato dunque in gran parte le gocce di pioggia, pur restando
fedele
alla sua affezione per quel popolo che ancora aspetta una patria. Gli
israeliani erano molto più irritati due settimane fa, quando il Papa
firmò
in Vaticano un accordo bilaterale insieme con Arafat al cui centro
c’ è
Gerusalemme. Ma di questo si parlerà nei giorni a venire. Adesso
tutti sono
quieti, protesi verso la giornata di oggi, la prima della vera visita
in
Israele, con il museo dell’ Olocausto al centro e le aspettative di
una parte
- non grande - della leadership ebraica di ulteriori scuse della
Chiesa.