I SETTLER CHE PER DISPERAZIONE HANNO ACCETTATO I MAGRI RISARCIMENTI D EL GOVERNO SHARON COLONI Quelli che hanno deciso di partire
martedì 26 ottobre 2004 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
« NEL nostro villaggio si dice comunemente che quando esci da Ganim e da
Kadim appoggi l’ anima sul sedile accanto a te, e la recuperi quando hai
passato il check point» . Ci proviamo anche noi. La mattina presto mettiamo
l’ anima sul sedile al check point che ci immette oltre il famoso recinto di
sicurezza, e inneschiamo la marcia verso il cancello scorrevole di Kadim; e
la sera indietro, dopo alcune ore, quando tramonta il sole. E’ una strada
diritta e vuota lunga cinque chilometri, su cui corrono veloci pochi veicoli
blindati fra due larghe striscie di stoppie gialle, gli ulivi, i cedri del
Libano e i pochi pini neri.
L’ umore nero di Masal Emek, segretaria quarantenne dell’ insediamento, grandi
occhi chiari sbarrati su una realtà stupefacente e spiacevole, diventa
trasparente. Sulla parte destra della strada in collina si erge con le sue
moschee e le sue case bianche e grige Jenin, ormai considerata da quattro
anni a questa parte la capitale dei terroristi suicidi: è qui che gli
artificieri e i cecchini di Hamas, della jihad islamica e delle Brigate di
Al Aqsa hanno la loro base più larga e micidiale, qui cominciò con una
battaglia storica nel maggio 2002 l’ operazione « Muro di Difesa» , la risposta
militare che comprendeva il reingresso dell’ esercito dopo decine di stragi
terroriste nelle città palestinesi sgombrate in base all’ accordo di Oslo.
L’ apice era stato proprio l’ eccidio di Natania, proveniente da Jenin.
Lungo la strada sei un bersaglio mobile per i cecchini, o la va o la spacca,
vai al lavoro e sei sotto tiro, torni e sei sotto tiro, i crack dei colpi di
fucile sono lontani ma le pallottole arrivano molto vicino, e seguiti ad
essere sotto tiro anche quando arrivi al paese. Sei una quaglia ovunque tu
vada. Così , a Kadim come a Ganim, insediamenti quasi interamente laici, alla
vigilia del voto per lo sgombero, lo sgombero è già cominciato da un pezzo:
« Il nostro destino era già segnato da quando Netanyahu a suo tempo, a Wye
Plantation, nel 1997, decise che quattro insediamenti al nord della Samaria
(Kadim, Ganim, Homesh, Sanur) sarebbero passati di là , un dono per
ingraziarsi i palestinesi, alla faccia delle famiglie che avevano costruito
le case e piantato gli alberi e fatto crescere i loro bambini tutti insieme
qui. Passammo alla zona B. Si era in pieno processo di pace, nessuno si
prese la briga di venire a comunicarcelo. Anche adesso Sharon non è mai
venuto a chiederci se siamo d’ accordo con lo sgombero. Eppure Kadim è
virtualmente un dead man walking, un morto che cammina. La storia si è messa
correre da quando l’ Intifada è scoppiata. Eravano venuti qui per la qualità
della vita: siamo stati presi di sorpresa da una storia più grande di noi» .
Kadim e Ganim con il loro straziante verde intenso, i fitti alberi, i fiori,
i tetti rossi, come Homesh a qualche decina di chilometri di distanza più a
nord, sono ormai mezzi vuoti. E dato il piano di sgombero di Sharon, se le
condizioni saranno appena soddisfacenti, certamente queste persone stanche e
deluse, che hanno visto morire e ferire gravemente i loro cari e i loro
amici, che hanno fatto una vita impossibile da quattro anni a questa parte,
faranno le valige e accetteranno le ricompense che offre loro lo Stato per
andarsene. Anche se amano teneramente, in spirito di amicizia con i
palestinesi il loro villaggio, i loro alberi, la loro casa. Eppure agli
occhi del mondo sono feroci settler.
Gli scivoli del giardino d’ infanzia sono impalliditi e impolverati. Le
trincee dell’ esercito, protette da reti mimetiche a larghi fori circondano
il plateau che fronteggia Jenin senza nessuna protezione naturale
circostante. Si può sparare sulle case, sui bambini, sui passanti da ogni
parte: « E succede tutti i giorni - spiega Masal - ma non creda che sia per
questo, o non per questo soltanto che siamo, volenti o nolenti in via di
smantellamento insieme a altri tre insediamenti del nord della Samaria.
Vede, capita che siamo dalla parte sbagliata del recinto, che si siano
dimenticati di noi. Pensi che per tre anni siamo rimasti senz’ acqua. Una
mattina abbiamo aperto i rubinetti, e l’ acqua non c’ era più . Eravamo spariti
come esseri umani, prima ancora che come pionieri che avevano fondato un
insediamento fino a ieri pieno di vita. L’ esercito ci ha fornito da bere e
da lavarci. Non esistevamo più , noi esiliati oltre il recinto. C’ era solo la
guerra, l’ Intifada, e il fastidio che diamo qui» .
Il portavoce del villaggio si chiama David Monsenego e sembra un hidalgo.
Parla breve e diretto, è un quarantasettenne atletico e triste, ci porta
diritto alla sua ex fabbrica di high tech e poi a casa sua: la fabbrica è
abbandonata, la casa, quasi: « E chi ci veniva più qui da noi a comprare? Lei
farebbe affari mentre sparano dentro la finestra? Ho trasferito tutto a
Afula, dove vado ogni giorno» . La casa, una villetta zeppe delle foto dei
suoi tre bambini, ha l’ aria di un ex sogno. I ragazzi chissà dove sono; non
qui. Non ci vengono date molte spiegazioni, ma sono lontani: tutti e tre,
come tutti i ragazzi del villaggio hanno dovuto richiedere un aiuto
psicologico. Nel vuoto dei sentieri di terra battuta, qualche persona è
invece per strada verso l’ ufficio di legno della locale unità sanitaria,
dove l’ assistente sociale conferma: « Vero, qui il lavoro non manca mai» .
Mosenego ci immette nel suo flash back quotidiano: dodici anni fa esatti, il
posto è magnifico, un gruppetto di cinque coppie ammira la vista della
Moschea di Jenin così vicina, niente reti, niente confini, di giorno si va a
fare la spesa a Jenin, la gente è simpatica e buona, i bambini giocano
insieme, spesso si passa il sabato bevendo caffè e mangiando pistacchi in
compagnia: « A tutt’ oggi ci telefoniamo da qui a là , fra gli spari: come
stanno i bambini, come sta tua moglie, siamo rimasti amici, e sento tanta
sofferenza anche da quella parte. Una volta durante una sparatoria fra il
nostro e il loro villaggio l’ esercito da qui ha ucciso un giovane; loro ci
sparano all’ impazzata. Un ragazzo che stava in piedi proprio qui, su questo
clivio, ha preso una pallottola in testa, dopo altri nostri due uccisi e due
feriti gravemente. Insomma la verità è che ad un tratto, dopo che Arafat ha
deciso che Camp David non gli bastava, è saltato tutto per aria, da un
giorno all’ altro, un sogno è diventato un incubo. Ci sparavano dentro casa,
sulla strada quando andavamo a lavorare in auto, eravamo improvvisamente
diventati un nemico, qualsiasi ombra che si muoveva all’ orizzonte lo era. La
sorpresa e l’ orrore sono stati pari» .
Masal racconta il suo momento più difficile, quello dell’ agguato della
storia alla sua morale: « Telefonavo ai miei amici palestinesi a Jenin e
chiedevo cosa succede. Silenzio, non una parola di condanna, neppure di
sorpresa. Nessuna spiegazione da coloro con cui mi confidavo e a cui portavo
i miei bambini a giocare con i loro. Chiedevo: ma non gli dite nulla a i
vostri capi, fatelo sapere a Arafat che non siete d’ accordo.. Silenzio,
assenza.. All’ inizio vivemmo giorni di incredibile confusione, ci guardavamo
stupefatti, le famiglie intanto erano diventate una cinquantina, i nostri
bambini erano piccoli, ciascuna coppia ne ha al minimo tre. Piano piano,
invece di preoccuparci per lo scopo stesso della nostra vita, per la ragione
sociale che ci aveva portato qui, ovvero i nostri figli, la loro totale
libertà di movimento fra gente perbene, l’ educazione di alto livello, la
modestia ma la consistenza della qualità della vita, siamo diventati
famiglie disperate alla ricerca del luogo più sicuro dove lasciare i bambini
quando andavamo a lavorare. Li abbiamo rinchiusi a scuola invece di
lasciarli giuocare e imparare all’ aperto» .
Poi, la gente ha cominciato ad andarsene, a lasciare la casa chiusa a Kadim
e a prendere un piccolo appartamento in affitto a Afula, a Natanya o altrove
: « Città colpite dal terrore, naturalmente. E’ così ridicolo: mia madre mi
chiama da Ghilò a Gerusalemme chiedendomi di andare da lei per rifugiarmi, e
io intanto sento i colpi di fucile che gli piovono dentro l’ appartamento da
Beit Jalla» .
Le famiglie che se ne erano andate, 15 su 42, un anno fa hanno dovuto in
parte tornare, incoraggiate forse anche da una presenza militare massiva
all’ interno dell’ insediamento stesso: e comunque, i soldi per mantenere due
case non c’ erano, e Kadim oggi, fra vari andirivieni, conta circa
venticinque famiglie su quaranta che la abitavano poco dopo l’ inizio
dell’ Intifada.
« Che sia chiaro - dice Monsonego - il fatto che mi sparino per me non è
decisivo nelle mie scelte. Al contrario, per la fedeltà che devo alle mie
idee di laico che crede nella convivenza dei popoli, che spera nella pace;
per la mia fedeltà allo Stato e per essere fedele a quello che insegno ai
miei figli, resterei e resisterei alla violenza, perchè non credo alla
violenza come strada per risolvere i conflitti. E credo che anche dalla
parte di là di siano tanti che vorrebbero arrivare a un compromesso, e che
vedono il terrorismo come una violenza anche verso di loro. Ma è
l’ incertezza in realtà che nutre il mio desiderio di andarmene: devo o non
devo piantare il prossimo albero? Devo o non devo insegnare ai miei figli a
considerare questo luogo “ casa” . Io sono venuto qui per la qualità della
vita. Strano no? Vedere Jenin, così bella, così vicina, fu una spinta a
decidere di venire. Adesso aspetto che il governo capisca la mia delusione e
che mi aiuti a ricominciare una vita come si deve, che non mi offra un
prezzo ridicolo per ricompensarmi (75 mila dollari sono la cifra media che
offre per le case di Kadim) e che mi mostri un po’ di rispetto. Allora, ne
avrò anch’ io per le decisioni del governo: ce ne andremo, ricostruiremo
altrove» .