Fiamma Nirenstein Blog

I paradossi di un Paese che ha perduto la certezza del nemico, ma non della guerra e delle stragi terroristiche Il Day After di Israele Vita quot idiana tra pace e bombe

giovedì 26 gennaio 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NOSTRO SERVIZIO Ironica è la storia. Il giorno dopo la tragedia si permette di sbizzarrirsi in follie, specie in Israele, piramide di paradossi, babele di facce e idee. Fathi Shakaki è forse l'uomo su cui la polizia israeliana, dopo l'attentato di Beit Lid, vorrebbe maggiormente mettere le mani. Egli è infatti il capo della Jihad islamica, l'organizzazione che ha rivendicato l'attentato. Anzi, Shakaki ne è il Segretario generale. Ex medico dell'ospedale Augusta Vittoria di Gerusalemme Est, più volte arrestato per terrorismo, ora, dopo essere stato espulso in Libano nel 1988, risiede a Damasco e di là tira le fila dei peggiori gesti terroristi. Ieri la sua foto appariva sul principale quotidiano israeliano, Yediot Aharonot, e non in un riquadro sotto cui fosse scritto , bensì nelle gentili, amorose mani di una bambina. Una bella bambina bruna, sorridente, graziosa, arrampicata in braccio alla sua mamma, anche lei una signora dagli occhi neri e ardenti, la bocca carnosa. La mamma è la moglie del terrorista, e sembra di buonumore in posa di fronte ai fotografi israeliani. Rigidamente vestita secondo i dettami della religione musulmana, seria, compunta, Fathia Shakaki ha 37 anni, e naturalmente vive nell'esilio di Damasco insieme con il marito, con cui condivide affetti e intenti politici. Tuttavia poiché Fathia è cittadina con carta d'identità delle autorità israeliane, in questi ultimi quattro mesi, proprio da quando più infuriano gli attentati, si è sistemata a Gerusalemme presso i suoi genitori per farsi consegnare il documento che attesta il suo rapporto d'origine con la tanto odiata terra cui peraltro tiene moltissimo. Si è portata dietro le tre figliolette, e da dentro Israele plaude contenta agli atti della Jihad e anche all'ultimo attentato, rispondendo alle domande dei giornalisti: decine di morti programmati dal marito. E la carta d'identità israeliana. E poi a casa, a Damasco, dall'uomo che distribuisce dinamite. I bambini devono tornare a scuola, dice sorridente Fathia da Gerusalemme. A Gerusalemme c'è un liceo chiamato Renee Kassen che in questi giorni è stato colpito da un dolore fuori del normale: ben sei dei suoi allievi, per un orribile scherzo del destino, son morti nell'attentato di Beit Lid. Nel mezzo dello strazio il direttore Heskiel Gabbai ha visto un gruppo di religiosi vestiti di nero, con i cappelli duri e i riccioli laterali, le facce severe, giungere a scuola con una richiesta molto specifica: vogliamo verificare, hanno detto, che le vostre Mesusot, ovvero le benedizioni che vengono poste nelle case e negli edifici ebraici sullo stipite della porta, siano in regola, ben scritte, non sciupate dal tempo. Perché , magari, una così grande disgrazia potrebbe dipendere dall'usura di questi oggetti; forse, hanno detto pieni di buona volontà , potremmo sostituirle adeguatamente. Il direttore non ha messo tempo in mezzo: ha ringraziato i religiosi e li ha messi alla porta. Essi intanto argomentavano che magari l'orribile disgrazia era avvenuta perché Itzhak Rabin aveva invitato a casa di sabato, il giorno in cui è proibito lavorare, alcuni esperti di economia. E anche la guerra del Libano, a suo tempo, forse aveva portato a tante perdite umane perché nell'esercito e nella società la licenziosità era grande. E che forse la morte dei bambini feriti qualche anno fa in un attentato terroristico era direttamente collegata all'apertura dei cinema il venerdì sera, ancora in violazione della religione. Ma persino Arie Deri, deputato dello Shas, uno dei capi riconosciuti dell'intero mondo osservante israeliano, si è seccato di tanto zelo interpretativo e ha suggerito che, quando avviene una disgrazia, magari è bene guardare innanzitutto dentro se stessi piuttosto che cercare panorami esoterici. Esiste un nuovo paradosso cultural-politico che si delinea nel pacifista in tempo di pace, che è in Israele insieme tempo di terrorismo. Chi pensava solo alla pace, oggi è costretto a pensare anche alla guerra. Amos Oz non solo è un uomo di sinistra, ma un profeta e un mentore dell'avvicinamento al mondo arabo. È quindi interessante e significativo, ancorché nuovo, che egli scriva sui giornali israeliani che è bene oggi . Se Hamas è pilotata da Damasco, dice in sostanza Oz, questo significa che dobbiamo spingere per più rapidi negoziati di pace con la Siria, ma anche che dobbiamo rispondere colpo su colpo ad Assad il quale, invece di scegliere la strada di , ha scelto quella di sparare. Lo stesso, sostiene Oz, dobbiamo fare noi. Stessa via con i palestinesi, che invece di , seguitano a . Dunque bisogna sì proseguire sulla via della pace, ma senza deporre le armi. Amos Oz conclude tuttavia che l'istituzione di uno Stato palestinese è indispensabile quanto prima sia per restituire il maltolto a chi ha sofferto tanto ed essere moralmente in regola, che per potere, nel caso, agire con la forza contro un nemico dai confini territoriali e politici finalmente delimitati. Fiamma Nirenstein

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