I guerrieri di Israele ammalati di pace L’ epica si appanna, i giovani ora vogliono normalità
lunedì 30 aprile 2001 La Stampa 0 commenti
SHARON aveva detto mille volte che non ci sarebbero state trattative
sotto
il fuoco: invece ce ne sono state in abbondanza, con decine di
incontri più
meno segreti, fino alle dichiarazioni di Mubarak di ieri. Israele si
guarda
intorno stupefatta, la gente si chiede se è vero, se si può ancora
sperare,
i coloni cominciano di nuovo a preoccuparsi, la sinistra tira il
fiato,
molti stupefatti confrontano l'orribile ondata di attentati delle
ultime ore
e i timidi sorrisi di Shimon Peres. Eppure la sensazione di fondo è
quella
di un debito pagato, una somma dovuta, un’ offesa che forse potrebbe
esser
lavata: l’ offesa della guerra a un Paese che, ontologicamente, per
come si è
costruito nonostante la geografia, nonostante i contrasti interni,
anche
quando mostra i denti ha il « trans» simbolicamente in agguato.
« Trans» è un tipo di musica, un ballo a un ritmo assordante che i
giovani
ballano per ore e ore e ore, associato a volte anche all’ uso di
stupefacenti, specie l’ ecstasy, per reggere lo sforzo e la
stupefazione.
Bene: durante i giorni della grande festa nazionale
dell'Indipendenza,
stavolta triste e macchiata di sangue, tenutasi tre giorni or sono, a
migliaia i ragazzi israeliani in licenza dall’ esercito, invece di
ballare la
« hora» , il ballo collettivo tradizionale, mezzo sovietico mezzo
orientale
cuore dell’ epos israeliano tradizionale, contadino, guerriero,
pionieristico, si sono buttati nel « trans» . Invece di danzare in
cerchio,
tutti insieme lo stesso movimento, le mani intrecciate l’ uno con
l’ altra
intorno a un fuoco o nelle piazze, come si faceva fino a qualche anno
fa,
ognuno per conto suo, con gli occhi chiusi, al buio o accecati dalle
luci
psichedeliche, fino al sorgere del sole, i ragazzi che in altri
momenti sono
paracadutisti o che con l’ elmetto e il mitra in mano presidiano i
check
point, ragazzi come quelli che muoiono in tanti in questi giorni e
che sono
morti (più di ventimila) dalla fondazione dello Stato d'Israele, i
ragazzi
che sparano e uccidono, hanno danzato celebrando la propria
appartenenza
alla società opulenta. Cercare di dimenticare, di scaricare la
tensione, in
pace. A Eilat, al mare, o nei boschi intorno a Gerusalemme dove
pagando 80
shekel (40mila lire) si può entrare in una discoteca improvvisata
dotata di
altoparlanti potenti e affidata a un disk jokey famoso, i giovani
d'Israele
danzano fino a quando il sole sorge su una terra che nelle ultime 48
ore ha
conosciuto otto attentati: non il ballo che batte con i piedi la
terra e
così facendo la possiede, ma la danza delle mani levate verso il
cielo,
agitate a destra e a manca verso un'impossibile speranza.
Dal 1991, quando ci fu l’ incontro di Madrid fra Israele, i
palestinesi e
tutti gli Stati Arabi, passando dall’ autentica epopea pacifista
dell'accordo
di Oslo, con i suoi personaggi circonfusi di destino, Rabin ,
Clinton,
Peres, l’ Arafat di allora, la società israeliana ha galoppato verso
quello
che sembrava essere il suo destino naturale: la pace. Anche se
rimanevano
sacche di rifiuto legato a posizioni naturalmente contrarie a quelle
della
modernità laica che vede nella pace una parte indiscutibile della sua
cultura, e il mondo degli insediamenti e quello religioso-
nazionalista si
opponeva , anche la destra del Likud, sia pure con maggior cautela,
si è
sentita trascinata nel processo di pace: persino Bibi Netanyahu,
nonostante
le parole roboanti, fece sgomberare Hebron secondo gli accordi di
Olso e a
Wye Plantation con Arafat e Clinton, fece ulteriori concessioni.
Israele nelle merci, nell’ high tec, nel cibo, nei modi di vita, nella
diffusione dell’ informazione pari a quella di qualsiasi altro stato
democratico, nella spietata critica da parte degli intellettuali e
dell'informazione verso la classe dirigente, da dieci anni si è
costruita
come un Paese che ha molte difficoltà ad affrontare lo scontro
costante, la
guerra, una serie di spietati attentati, e anche ad affrontare la
morte e lo
stress di essere odiati da un nemico. Giorno dopo giorno, dopo ogni
sparatoria, dopo ogni attentato cui risponde un’ azione contro uomini
di
Hamas o di Fatah, dopo ogni bombardamento, per quanto possa essere
mirato su
obiettivi specifici, dopo ogni chiusura dei Territori per quanto
dichiaratamente tesa a evitare l’ ingresso di terroristi in Israele e
limitata nel tempo, l'informazione, l’ opinione pubblica si scatenano
in
critiche roventi, che minano il morale dell’ esercito. I giovani in
divisa
sentono che la popolazione non possiede la tensione morale che
sostiene un
esercito, le mamme fanno squillare incessantemente i telefonini, la
morte
dei giovani è vissuta non come la può vivere un Paese in guerra, ma
come una
tragedia incontenibile, invivibile. Ciò che ha giocato molto nella
costruzione di questi sentimenti, è anche una grande rivoluzione
culturale:
dagli Istituti di Storia nelle Università , è uscita un’ ondata di
libri che,
pieni di senso di colpa, ridiscutono le origini stesse d'Israele, le
sofferenze palestinesi causate dalla guerra del ‘ 48 (scoppiata su
iniziativa
dei paesi Arabi contro la risoluzione dell’ Onu che accettava Israele
nella
comunità delle nazioni) e hanno imposto alla coscienza israeliana un
senso
di colpa simile a quello che sentono gli americani verso gli indiani,
o che
troviamo in una certa lettura del nostro Risorgimento nei confronti
del Sud.
Solo che Italia e Stati Uniti non sono Paesi con un nemico agguerrito
e
molto attivo in attentati e azioni belliche.
L'esercito israeliano, anche da quando Sharon è al potere, ha
compiuto
azioni molto simili a quelle ordinate, prima, da Ehud Barak; mentre
diceva
di non trattare, tramite suo figlio Omri e il suo ministro degli
esteri
Peres, Sharon ha trattato senza sosta. I coloni sono importanti per
lui; la
paura degli attentati e la rabbia per il grande rifiuto palestinese
anche;
ma anche il Primo Ministro più aggressivo degli ultimi anni non può
lasciare
da parte quella che a prima vista sembra solo un patetico desiderio,
e
invece è ormai parte, per la vita o per la morte, dell’ inconscio
collettivo
israeliano, un tempo eroico e integralmente devoto alla
sopravvivenza. Pochi
giorni fa, un gruppo di israeliani inalberava un cartello vicino a
soldato
in divisa mentre volavano le pietre dell’ Intifada. Sul cartello è ra
scritto:
« Ci rifiutiamo di essere nemici» .