I 40 anni dalla cacciata dello Scià di Persia
venerdì 18 gennaio 2019 Il Giornale 0 commenti
Il Giornale, 18 gennaio 2019
«Lo Scià era un personaggio complicato - dice la giornalista Ruthie Blum autrice di To hell in a handbasket: Carter, Obama and the Arab Spring - che a lato della repressione coltivava un'aspirazione che fu colpevolmente ignorata dal mondo democratico: l'occidentalizzazione del suo Paese». Per attuarla Pahlavi non risparmiò vessazioni ai suoi oppositori, prigioni e torture: «E tuttavia cercò di aprire la strada all'emancipazione femminile - insiste la Blum -, su cui poi gli Ayatollah si sono presi la peggiore vendetta. Ma più di tutto cercò di aprire la porta al mondo, cosa che gli americani non hanno capito sbagliando tutto fino all'occupazione dell'ambasciata del 4 novembre 1979, quando si apre un'era di conflitto per le aspirazioni imperialistiche di Khomeini». Khomeini ha già spiegato nei suoi testi che tipo di società intende istituire e quanto per lui sia importante fare dell'Iran la base della conquista del mondo: l'unico a capirlo leggendolo in farsi è il grande storico Bernard Lewis, che non viene ascoltato. Ma i moti di piazza non sono sempre forieri di giustizia e libertà come ama pensare il mondo progressista del tempo: i corrispondenti di quasi tutti i giornali si entusiasmano, si lanciano in condanne dello Scià mentre lodano la rivoluzione. Manca del tutto una coscienza mediorientalista per spiegare quello che sta succedendo e che sarà poi destinato ad azzannare il mondo occidentale fino a oggi. Ma è difficile capire: gli iraniani non sono arabi, e quindi per loro, a differenza dei sunniti, la Jihiliyya, o «epoca dell'ignoranza» preislamica, non è fonte di vergogna: per gli sciiti iraniani gli arabi sono «bevitori di latte di cammella e mangiatori di lucertole che osano aspirare al trono divino». L'ambizione sciita si organizza oltre che sulla religione, anche sulla memoria dell'impero persiano: eredi di un passato imperiale col culto del martirio e anche della Taqiyya, la dissimulazione. Questo, li ha poi resi abilissimi negoziatori sulla questione atomica. Nel 1979 Khomeini che si prepara a tornare a Teheran istituisce la Repubblica Islamica e con essa una Costituzione che chiama alla «continuazione della rivoluzione in casa e fuori». E spiega: «Non è per patriottismo che agiamo, patriottismo è un altro nome del paganesimo.
Lasciate che questa terra bruci, che vada in fumo se l'Islam potrà emergerne trionfante nel resto del mondo». L'Iran che caccia Pahlavi lo fa in uno scontro aperto col mondo occidentale, usando il terrorismo che non ha mai disapprovato senza tuttavia rivendicarlo. Una tecnica raffinata che arriva fino alla progettazione della bomba atomica e che ha visto nell'America, sostenitrice dello Scià, il suo primo nemico e in Israele la besta satanica da distruggere. Lo Scià era un personaggi controverso, persino il figlio me ne diede conto in un'intervista. Ma ben più controversa è la sua deposizione mentre l'Iran si organizza sulla base del khomeinismo e dell'uso intensivo delle Guardie della Rivoluzione per conquistare dapprima il Medio Oriente e poi il mondo, e per reprimere la gente iraniana che non ne può più. Donne e dissidenti soffrono molto di più adesso che al tempo dello Scià, l'odio per l'Occidente è certamente molto più ardente. L'Iran, nonostante le grandi difficoltà economiche e la guerra permanente, pure dopo 40 anni di regime degli Ayatollah, continua ad ambire al cambiamento, a un futuro migliore. I suoi diritti civili, quelli delle donne, degli omosessuali, dei dissidenti gridano giustizia. Forse anche i suoi soldati e ufficiali inviati in Libano, in Siria, in Irak, in Yemen, vorrebbero tornare a lavorare per il bene del loro grande Paese invece che per la rivoluzione islamica mondiale. Tutto questo si chiama regime change, e certamente molta parte della popolazione ci spera.
