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GLI OPPOSTI SENTIMENTI DI ARABI E ISRAELIANI Due speranze e due paure La Città Santa di fronte alla spartizione

mercoledì 27 dicembre 2000 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME DI fronte alla porta di Sion, Agop, tra foglie e fiori armeni dipinti con le sue mani sulle ceramiche della sua bottega dentro le mura merlate di Gerusalemme, si sente come una delle foglie che il forte vento invernale trascina nelle vie della Città Santa. Sorride di stupefazione: « Il mio negozio sarà dalla parte palestinese, la mia casa dalla parte israeliana» .Sotto il Muro del Pianto uomini nerovestiti guardano in su, verso la spianata delle Moschee: « Saranno loro i padroni di casa, i musulmani ci bombarderanno di pietre, ma soprattutto ci toglieranno la ragione stessa della nostra memoria, il luogo dove sorgeva il Tempio che tremila anni fa costruì Salomone, e che poi Erode rimise in piedi dopo la distruzione babilonese, e che i romani bruciarono nel 70 dopo Cristo. La nostra stessa identità , la ragione per cui sono venuto qui a piedi dallo Yemen» . Un vecchio che tutti chiamano Mori, maestro, col viso accartocciato dall’ età ci guarda fisso come a cercare una risposta: « Gerusalemme è benedetta da Dio, come possono gli uomini ignorare questa benedizione, non posso più morire in pace» . Sulla Spianata, sotto la Moschea di Al Aqsa da una parte e dall'altra sotto quella della Roccia, l'icona stessa, con la sua cupola d'oro, della passione musulmana per Al Quds, Gerusalemme, il sentimento è diviso, proprio come deve esserlo quello di Arafat in queste ore di decisioni supreme: il senso di vittoria connesso all'idea che i palestinesi possano riportare all'Islam la sovranità territoriale nella Città Vecchia e su tanta altra parte di Gerusalemme, crea un senso di orgoglio: « A quel muro che gli ebrei chiamano il Muro del Pianto Maometto legò Al Buraq, il suo cavallo, dopo essere volato fin qui dalla Mecca. E poi sulla sua groppa si involò al cielo» , spiega uno dei custodi delle Moschee, nato a Gerusalemme, ansioso di vedere la sua bandiera sventolare sulla Spianata. Ma un ragazzo invece insiste che non si deve fare nessun accordo con gli israeliani, che nessun prezzo vale la lotta dei palestinesi che deve continuare fino alla fine, fino al ritorno dell'ultimo profugo del 1948 e dei figli dei suoi figli: « Arafat non deve svendere i morti di questa Intifada, la sovranità un giorno verrà tutta intera» . Fa freddo a Gerusalemme, la città trattiene il fiato mentre le nuvole corrono, e appare più fatale di sempre, teatro di passioni e di scelte che non possono più aspettare: Clinton aspetta oggi la risposta di Barak e di Arafat. Il capo dei palestinesi due giorni fa è andato a farsi controllare dal suo neurologo ad Amman, lo stress ha raggiunto l'acme, il dottore che lo segue dal tempo in cui il Raí ss si salvò miracolosamente da un disastro aereo gli ha ingiunto il riposo; ma non se ne parla nemmeno. Arafat cerca in queste ore con incontri e riunioni continue la strada fra il desiderio di lasciare al suo popolo uno Stato con il 95 per cento della West Bank, la Valle del Giordano, e prima di tutto una parte grande e santa sia della Città Vecchia sia dei quartieri circostanti salvo quello ebraico, e la rinuncia (sia pure compensata con varie strade di ricollocamento economico e geografico) al ritorno dei profughi. Il messaggio che gli viene dai Paesi arabi è ambiguo: da una parte certo essi desiderano la sovranità sulle Moschee, che soddisferebbe l'opinione pubblica islamica, ma dall'altra lo hanno avvertito che non si faranno carico della fluttuazione nei loro territori di una quantità di persone senza casa, scontente e desiderose di rivincita. Ehud Barak è pallido, teso. E' apparso ripetutamente alla televisione per calmare il pubblico e per spiegare che, comunque, prima che Arafat parli lui non farà la prima mossa. Ma l'effetto non è stato quello desiderato: la sua voce ha toni alti e militareschi: l'uomo del kibbutz, il soldato più decorato d'Israele soffre in maniera evidente l'angoscia di offrire ulteriori acquisizioni a un partner con cui di fatto è difficile chiudere un trattato di pace e con cui, in ogni caso, adesso è in corso una guerra. E' la prima volta nella storia dello Stato ebraico che Israele si ritirerebbe non in seguito a una vittoria, ma sotto il fuoco. I trattati militari dicono chiaramente che questo non si fa mai, che ciò spinge il nemico a ulteriori richieste. Eppure Barak ripete una verità inequivoca: o questa pace, patteggiata su basi di rinunce ciclopiche, oppure sarà guerra per il Medio Oriente. Sa anche che l'unica possibilità di vincere le elezioni, cui ormai manca poco più di un mese, è dimostrare a Israele che la strada della pace esiste ancora: fida nell'idea che gli israeliani quando vedranno nel buio una nuova luce la seguiranno. Arafat non può contare sullo stesso sentimento: la sua gente ha avuto troppi morti, lo scontro ha dissotterrato un profondo senso di rivincita contro un Israele che sembra avere meno tenuta, meno capacità di deterrenza, e che resta agli occhi del mondo arabo una scheggia di Occidente piantata nel cuore della sua area. Arafat rischia molto con il suo pubblico se stringe un accordo, qualsiasi accordo, anche il migliore: può trovarsi di fronte a un grande ammutinamento, persino a tentativi di assassinio politico. Quanto a Barak, gli estremisti hanno cominciato ad applicargli l'aggettivo che usavano per Rabin: « Boghed» , traditore.

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