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Giugno 1967: cronaca di una guerra di sopravvivenza

giovedì 1 giugno 2017 Generico 0 commenti

Shalom.it, giugno 2017

Israele reagì con una geniale operazione militare all’accerchiamento mortale di centinaia di migliaia di soldati arabi ammassati ai suoi confini e già pronti all’invasione. Fra le tante “narrative” fasulle quella sulla Guerra dei Sei Giorni è fra le più fastidiose. E ormai di moda negare che esista la verità, anzi, una realtà storica e immaginare che le verità possano essere tante. Ma non è così: accade a causa di questo relativismo che si arriva ai peggiori negazionismi, come quello che la Shoah non sia mai esistita, o che gli ebrei non abbiano mai avuto niente a che fare con Gerusalemme: le peggiori bugie diventano verità soltanto perché la politica, il conformismo, la macchina propagandistica, la paura, il desiderio di compiacere le rendono tali.

Questo nasconde la storia, e niente è più dannoso all’essere umano, ai giovani, che essere ridotti privi di memoria. Adesso piace, con tono equanime e pacifista, ricordare quella guerra iniziata il 5 giugno di cinquant’anni fa, quasi come una guerra di aggressione, maligna, espansionista, prodromo di quella cosa così indecente che è poi stata chiamata “occupazione”, la perfida madre dei “coloni” e dei “territori”, l’inizio di una problematica che prima non c’era, e che poi è diventata sangue sudore e lacrime. Tanti hanno scritto e detto sulla Guerra dei Sei Giorni con toni luttuosi, stravolgendone interamente il significato. Come prima cosa va ristabilita una verità che si va perdendo: la Guerra dei Sei Giorni ha salvato Israele da morte certa, è stata la meravigliosa guerra di difesa che ha permesso, con un’invenzione strategica geniale, a Israele, di battere i nemici arabi uniti in coalizione e pronti a invaderla da tutti i fronti atterrando l’aviazione dello stato leader del panarabismo genocida, l’Egitto. Per verificare la storia di quel periodo basta leggere il famoso testo di Michael Oren, che racconta quanto Israele abbia odiato l’idea di entrare in guerra e sia stato costretto a farlo.

Nessun disegno di conquista, nessuna voglia di una “Grande Israele” in quelli che allora, ricordiamo anche questo perché non lo si sa più, erano territori occupati dalla Giordania con la guerra del ‘48 a costo di molto sangue ebraico a Gerusalemme, e delimitati da linee armistiziali. Di Stato Palestinese non ce n’era l’ombra né l’idea, mentre era chiarissimo il desiderio ribadito e praticato fin dagli anni Trenta, di voler sradicare con la violenza la presenza ebraica da quella che viene dai musulmani considerata la “humma islamica”: gli ebrei devono essere ributtati in mare, allora come prima e come oggi. Qui sta tutto il nodo da cui si origina la filosofia e la pratica di una guerra che ci è quasi riuscita se non fosse stata per la incredibile tenacia e volontà di sopravvivenza del popolo ebraico. Dopo il Faraone, i cosacchi, Hitler, Stalin… Israele ce la fece anche con gli egiziani, i siriani, i giordani, gli iracheni coalizzati e già ammassati sulle sue frontiere da ogni parte. E fu solo grazie alla genialità e all’eroismo di Yitzhak Rabin, di Moshe Dayan, e di tutti i soldati e in particolare i piloti.

La furia di Gamal Nasser dopo la sconfitta della guerra del ’56 era lo sfondo ideologico, il sale nella bruciante ferita del ’48: il panarabismo con cui Nasser, fiancheggiato, armato, sostenuto dalla Russia sovietica ammaliava (e così è stato per decenni, anche dopo la sua morte) i paesi nati dalla divisione di Sykes Picot era la benzina da cui scaturiva la determinazione a una guerra di conquista e di annichilimento. “Preparatevi alla battaglia definitiva per la Palestina”; “l’esistenza di Israele è durata troppo a lungo.

Diamo il benvenuto alla battaglia definitiva in cui distruggeremo Israele”. “L’unico metodo che applicheremo è la guerra totale di sterminio contro i sionisti”: le radio e le promesse di soluzione finale risuonavano ovunque (quelle sopra sono alcune fra le migliaia di citazioni di quei giorni). Il fondatore dell’Olp Ahmed Shukairi diceva: “Valuto che nessun ebreo sopravviverà”. La scintilla fu un’informazione errata dei servizi segreti russi a Nasser secondo cui Israele ammassava truppe lungo il confine siriano. Non era vero, ma Nasser era ormai partito in quarta: entrò nella penisola del Sinai con le truppe e i mezzi corrazzati, mosse 15mila uomini, 100 carri armati e l’artiglieria. Il 16 maggio chiede alle forze di divisione dell’ONU di ritirarsi per lasciare campo libero all’attacco, e quelli se ne andarono. Alla fine Nasser fa la mossa che è una dichiarazione di guerra: blocca lo stretto di Tiran.

Intanto vengono stretti i patti di aggressione con gli altri Paesi arabi, e Israele cerca aiuto tramite le visite di Abba Eban ministro degli Esteri ai francesi, agli inglesi, agli americani... nessuno però vuole fare una mossa che possa irritare i russi. In Israele si concepiscono addirittura piani per evacuare i bambini su navi. Si forma un governo di coalizione che concepisce un piano geniale mentre la situazione ribolle: gli uomini di Nasser in Sinai sono arrivati a 100mila, quelli siriani sul confine a 75mila e i giordani 32mila più i tank, ovunque pronti per l’invasione e soprattutto si teme l’agguerrita aviazione egiziana che preannuncia che distruggerà Tel Aviv.

E’ così che alle 7,30 di mattina del 5 giugno mentre i piloti egiziani stanno facendo colazione nelle basi, si alzano in volo centinaia di velivoli da guerra israeliani, volando a soli 15 metri di altezza e con l’ordine di non lanciare messaggi radio neppure in caso di estremo pericolo. Solo dodici resteranno a guardia del Paese in questa operazione estremamente rischiosa: ma gli aerei egiziani saranno tutti distrutti a terra, di fatto cancellando ogni prospettiva vittoriosa per gli arabi. Alle 10,35 Rabin, capo di stato maggiore annunciava incredulo lui stesso “l’aviazione egiziana ha cessato di esistere”.

Il presidente Levy Eshkol e il ministro degli esteri Moshe Dayan pregarono re Hussein di tenersi fuori: ma il re per paura di Nasser non volle farlo. La fiera battaglia di Gerusalemme, in cui a Givat ha Tacmoshet gli israeliani persero tanti soldati, fu intrapresa solo dopo la decisione del re di attaccare. E certamente la riunificazione della capitale non solo di Israele ma della storia quadrimillenaria della città di Salomone, di David, il meraviglioso ritorno degli ebrei a poter toccare il Muro del Pianto, dopo tanto soffrire, dopo tanti pericoli, fu un atto di giustizia storica. Esso si è poi trasformato nel tempo anche nella possibilità per tutti i cittadini e per tutti i viaggiatori di tutte le religioni e di tutte le etnie di praticare le loro fedi liberi e senza vincoli. Sembra un sogno, che solo cinquant’anni fa era irrealizzabile, vedere nelle strade, negli ospedali, alla knesset, all’università, negli ospedali... ebrei, arabi, cristiani, condividere lo stesso spazio ciascuno libero di fare ciò che vuole mentre intorno fiorisce e si sviluppa una città moderna e accogliente.

I famosi “territori” su cui ha amato molto esercitarsi la condanna di Obama e dell’Unione Europea, sono in realtà un tema molto controverso e non ha affatto l’univoco carattere di territori occupati: prima di tutto sono occupati dopo una guerra di difesa, poi lo sono non da uno stato sovrano ma da uno stato a sua volta occupante, cioè il Regno di Giordania, poi sono stati definiti dall’ONU, salvo poi a modificare sotto spinte politiche la sua versione, territori contestati secondo la risoluzione 242 che prevede la definizione di “confini sicuri” per Israele.

Come è noto Israele ogni qual volta si è sentito rassicurato ha lasciato, abbandonato, restituito territori dal Sinai a Gaza all’Aravà… non è andata benissimo, specie a Gaza, e il ripetuto rifiuto del compromesso da parte palestinese fa pensare con ragione che l’ambizione sia ancora quella espressa da Nasser con la guerra del ‘67, puntare all’eliminazione di Israele.

La Guerra dei Sei Giorni ha dato a Israele un bastione di sicurezza, una base per parlamentare: occorre che dall’altra parte del tavolo ci sia qualcuno con intenzioni serie. Per ora non è successo. E se si può chiacchierare fino a domani sulle difficoltà che pone a Israele doversi occupare di questi “territori” e se si ricorda che per il 98 per cento comunque la popolazione di quelle aree è dall’accordo di Oslo sotto giurisdizione palestinese… bene, tutto questo non risolve il problema della volontà palestinese che si esprime nell’incitamento sfrenato e nel sostegno al terrorismo costante: chiudere il capitolo della presenza sionista nell’area mediorientale e a Gerusalemme. Ma questo, non avverrà.

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