Fredda accoglienza e polemiche per il film di Lanzmann sull’esercito fondato da Ben Gurion Israele dimentica i suoi Rambo Troppi amici morti, il rico rdo fa ancora male
martedì 6 dicembre 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV A giudicare dai primi sussurri nel buio, Tzahal, il nuovo
film di Claude Lanzmann sull’esercito israeliano, cinque ore di primi
piani e di paesaggi vuoti di uomini e pieni di anima, non avrà i
ringraziamenti del pubblico israeliano. I critici che hanno assistito
all’anteprima in una saletta di Tel Aviv, tutta gente di sinistra
come è in genere l’ambiente del cinema in tutto il mondo, già
sussurravano il loro disappunto per un film , troppo
innamorato dell’epica, delle gesta eroiche, di quei visi di soldato
carichi di una determinazione un po’ scandalosa ai nostri tempi.
Oggi, col processo di pace, gli intellettuali di qui sono in piena
revisione della storia di Tzahal, intenti a scalpellare il cemento
sociale creato dall’esercito che nacque dalla volontà di
sopravvivenza di un pugno di pazzi capeggiato da Ben Gurion. E poi,
tutti, qui, hanno i loro tre anni di ferma, sempre in guerra,
sempre in pericolo di vita. Tutti, uomini e donne, hanno avuto il
loro momento cruciale di formazione nell’esercito, fra polacchi,
russi, beduini, drusi, etiopi. Tutti si sono visti morire accanto i
loro migliori amici durante uno dei cinque conflitti che dal ‘48
insanguinano l’area mediorientale; tutti svolgono il servizio di
riserva (il Miluim) fino a cinquant’anni. Moltissimi hanno svolto
operazioni e sopportato fatiche al limite dell’umano. Dunque, chi ha
voglia, qui, di farselo raccontare di nuovo da un ebreo francese, sia
pure l’autore del film sulla Shoah, l’Olocausto, che ha scosso tutto
il mondo? Quali nuove verità sull’esercito Lanzmann potrebbe dire a
Israele che ancora non sappia, che non abbia esperito nel sangue e
nella polvere? Solo fuori da Israele, dunque, lontano da Tzahal, il
film di Lanzmann potrà raccontare una realtà sconosciuta e
stupefacente, solo agli italiani, agli americani, agli occidentali,
per cui l’esercito è un corpo esterno alla vita civile, e non un
melting pot che rovescia il suo potere di coesione sull’intera
società civile. Le cinque ore di Lanzmann sono nettamente divise in
due parti: tre ore più due. Le prime tre parlano appunto di Tzahal,
affondano nello stupore di una realtà costruita da fatiche
inenarrabili, da durezze e da aspirazioni morali assolute:
umani guerreggiando per cinquant’anni ripetono i soldati
intervistati . Poi,
nell’ultima parte, Lanzmann, che ha girato il film prima che il
processo di pace portasse i suoi frutti, interpella gli scrittori
Amos Oz, David Grossmann e altri intellettuali pacifisti
sull’influenza nefasta che l’uso dell’esercito nei territori, contro
l’intifada, ha avuto sulla vita civile d’Israele. Lanzmann,
corpulento e sornione, compiaciuto della sua pretesa primitività
(molto francese per altro) nel porre le domande, dialoga anche a
lungo con un colono dai modi ipermansueti e folli, che ripete che la
terra gli è stata direttamente consegnata da e
che quindi gli appartiene per diritto divino; e il regista perora,
forse per scontare le prime tre ore, la causa dei palestinesi
concludendo il colloquio con un abbraccio paternalistico e
commiserante. No: non è questa la parte del film
che Lanzmann ha certamente voluto costruire come aveva fatto con
Shoah: resterà invece come documento di una realtà irripetibile,
quale che sia la simpatia che suscita, il racconto piano e straniato
del capo di Stato Maggiore Yehud Barak, un uomo di kibbutz dallo
sguardo di bambino prodigio, che racconta come ci si può
addormentare per la stanchezza mortale tra uno scontro frontale a
fuoco e l’altro, durata dell’intervallo: circa 15 secondi. O che
ricorda la sua incredibile missione a Beirut, travestito da donna in
coppia con Muki Betzer, oggi generale a riposo, per attaccare il
quartier generale dell’Olp e uccidere il vice di Arafat.
sparò ? chiede Lanzmann dopo un racconto tanto mirabolante quanto
tenuto su un tono domestico, antieroico, autoironico.
che doveva farlo, è la risposta. Vediamo eroi nazionali e generali
come Avigdor Kahalani o Yanush Ben Gal che raccontano a lungo
soprattutto la paura, lo smarrimento di fronte all’attacco
concentrico egiziano-siriano del ‘73, con la guerra del Kippur.
Kahalani racconta come il suo corpo prese fuoco dentro il carro
armato colpito dai proiettili egiziani in Sinai, e come, alla maniera
della tragedia greca, per tre volte abbia tentato di saltare fuori
dal tank e per tre volte sia ricaduto indietro, e poi, gridando
, sia riuscito a sormontare la torretta e
aprire il portello. Betzer, sempre con la voce e il sorriso della
vita quotidiana, narra come abbia attraversato chilometri di deserto
con la gola traforata, camminando sino alla salvezza in una nebbia:
più moderno Merkavà , made in Israel) quanto ci si possa innamorare
della sua apparente, squadrata invincibilità , e anche del suo
abitacolo fetale, dei nascondigli privati che ciascuno si crea, in
cui si ripongono le sigarette e le fotografie della mamma o della
fidanzata. Ma soprattutto, quello che i generali raccontano (meglio
di tutti Yanush Ben Gal, con la sua faccia da vecchio polacco ossuto)
è l’infinito tragitto compiuto da bambini attraverso l’Olocausto,
via dall’Europa, sino all’infinita e nuova fatica della guerra in
Israele. È questo filo, che certamente all’Israele pacifista e
intellettuale non piacerà , che Lanzmann tesse: Tzahal, l’autodifesa
degli ebrei come proseguimento e reazione della storia ebraica, ieri
storia di vittime, oggi di gente che ha imparato a difendersi e a
contrattaccare. Eppure, la distesa di tombe di ragazzi tra i diciotto
e i ventun anni che Lanzmann visita con la macchina da presa
suggerisce un accanimento del destino, un paradosso, che né
Lanzmann, né ancora nessuno dei moderni artisti e pensatori riesce a
sviscerare e a spiegarsi fino in fondo. Fiamma Nirenstein