Fiamma Nirenstein Blog

FALLIMENTO DELL’ AZIONE MILITARE

giovedì 19 aprile 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein HANNO un bell’ insistere i politici israeliani che l’ incursione unita all’ occupazione-lampo di alcune zone di Gaza è stata un successo, esclamare che l’ uscita precipitosa fra le otto e le dieci di sera era già stata programmata in anticipo, affermare che è stato raggiunto un risultato di deterrenza morale (« Arafat - ha detto il ministro Meir Shitrit - adesso sa che non può azzardarsi a sparare con le katiushe sui villaggi israeliani da dentro Gaza» ) e anche pratico, facendo spostare i mortai oltre la linea di pericolo. Non è vero. L’ incursione è andata male. Dal punto di vista militare e dal punto di vista politico è semmai solo una testimonianza di come a Israele sia in questa fase molto difficile immaginare una strategia contro l’ uso sempre più largo di armi pesanti contro le sue città , i kibbutz, gli insediamenti. I segni del fallimento sono due: la polemica che si è scatenata intorno al fatto che il capo delle operazioni a Gaza, il comandante Yair Naveh, intervistato sul campo alle 17 dai giornalisti, aveva annunciato che l’ esercito sarebbe restato a Gaza finchè tutti gli obiettivi non fossero conseguiti (cioè , fino allo smantellamento delle postazioni delle armi pesanti; ndr). « Quel che ci vorrà » , aveva detto: « Giorni, settimane, mesi» . Il poveretto, che poi è stato duramente redarguito, non sapeva che il Capo dello Stato Shaul Mofaz aveva già disposto il ritiro, a causa delle fortissime pressioni americane, entro pochissime ore. Il secondo segnale: Shimon Peres ha spiegato l’ intervento del portavoce del dipartimento di Stato americano, quando già praticamente lo sgombero stava avvenendo, come causato da una « caduta delle comunicazioni» . Non certo fra Usa e Israele, ma piuttosto fra lui, ministro degli Esteri, e il suo diretto principale, Arik Sharon. In una parola, Sharon non aveva incaricato Peres di conferire col suo corrispettivo americano Colin Powell, tenendolo invece all’ oscuro di molte cose. Che cosa ricava Israele da questa azione? La sicurezza che se si azzarda a rientrare nella zona A non la passa liscia, e che quindi ha usato una strategia impraticabile; la consapevolezza che anche se quei mortai sono stati sgomberati, Arafat è in grado di rimetterne subito in piedi altri, che infatti hanno ricominciato a sparare appena gli israeliani sono usciti; il senso che Arafat, sebbene sia stato riconosciuto dagli Usa come il maggior responsabile delle violenze in corso, ha ancora un grande potere di gestire l’ opinione pubblica internazionale. Inoltre l’ esercito adesso è stupito e amareggiato di essere stato mobilitato non tanto secondo un vero obiettivo strategico di difesa, quanto secondo un disegno politico che si è mostrato fallibile in pochissime ore. Sharon non sa più che fare: il mondo è molto preoccupato delle reazioni arabe, il gioco della deterrenza che dovrebbe mantenere la pace e l’ ordine non funziona. L’ esercito è forte, ma l’ homo pacificus del XXI secolo fa sì che il militare e il politico non riescano più , ontologicamente, ad andare d’ accordo. Ieri, al tramonto, Israele è affondata nelle 24 ore di commemorazione dell’ Olocausto senza il consueto spirito di volontà e di vita che rende la memoria della tragedia meno spaventosa. Una guerra controversa e non desiderata incombe.

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