EPPURE RESTA QUALCHE SPERANZA
venerdì 26 novembre 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
NON sarà certo la conferma della condanna a morte di Ocalan a
risolvere la
questione curda in Turchia e nel mondo. La Turchia non può illudersi:
i
curdi sono circa 20 milioni, il più grande gruppo nazionale senza
alcuna
forma di autogoverno, sparsi per l’ Iran, l’ Iraq, la Turchia, la
Siria, la
vecchia Unione Sovietica. I diritti umani dei curdi sono stati
soppressi
negli ultimi settant’ anni in tutte le nazioni citate. L’ Iran e l’ Iraq
li
hanno usati come pedine o decimati a seconda dell’ opportunità del
momento;
sotto lo Scià l’ Iran sostenne le incursioni curde in Iraq solo per
poi
ritirare il suo appoggio dopo l’ accordo di Algeri. Saddam Hussein li
ha
uccisi in massa con i gas; la Siria ha nutrito il loro terrorismo
contro la
Turchia pur guardandosi bene dall’ assegnare loro un qualsivoglia
ruolo
politico.
La Turchia, che è stata addentata più di qualunque altro Stato dal
terrorismo curdo, cresciuto nella serra del comunismo sovietico dov’ è
stato
educato Ocalan, ha sofferto una guerra di 30 mila morti; la parte
della
popolazione turca coinvolta negli attentati, le famiglie dei
trucidati
civili e militari, è furiosa contro Ocalan anche se non
necessariamente
contro i curdi. Dopo il terremoto, infatti, le due parti della
popolazione
si sono unite in un comune sforzo, anche se il disastro economico ha
certamente sottratto fondi al rilancio delle zone curde, e ha
suscitato
nuova rabbia fra i curdi stessi. Una cronaca raccontava del loro
giusto
lamento: « Noi il nostro terremoto l’ abbiamo già avuto, e dura da
decenni,
con morti, feriti, e distruzione dei nostri beni» .
Certamente qualcosa è successo durante il processo Ocalan, la
guerriglia
curda si era ritirata dalle montagne, e il governo turco aveva messo
in moto
aiuti e inizi di democratizzazione che prefiguravano un’ accettazione
dell’ autonomia curda almeno linguistica e culturale, sempre duramente
respinta dal governo. Insomma, la Turchia sembrava aver superato il
complesso militaresco che le proibiva di dare alcun segno di
debolezza o
capitolazione concedendo le debite libertà alla sua più grossa
minoranza.
Aveva anche, di fronte alla disponibilità mostrata dai Paesi europei
verso
le nuove tragiche necessità sorte dal terremoto, smesso di mostrare
il viso
duro di chi è offeso per non aver ricevuto ciò che le è dovuto,
l’ agognato
ingresso nell’ Ue. E i curdi, a loro volta, avevano finalmente
lasciato
intendere che la faccia di Ocalan non è la sola bandiera di cui
dispongono,
che la sua educazione politica non rappresenta per intero la vera
natura di
un popolo oppresso.
L’ impressione generale, insomma, è che queste acquisizioni non
possano
essere state gettate via in una sola mossa, che la Turchia abbia
sentito una
sorta di costrizione a confermare la condanna a morte sia per
l’ incontenibile pressione popolare, sia anche per l’ improprio e
leggero
sostegno europeo mostrato a suo tempo alla figura di Ocalan. Questo
non
significa di fatto che Ocalan sarà impiccato: ci sono ancora molti
passaggi
perché la condanna diventi definitiva, e troppi passi, in questo
periodo,
sono stati fatti dalla nazione turca e da quella curda insieme perché
Ecevit
desideri veramente vederlo appeso. Troppe sono state le richieste
americane,
troppe le pressioni europee, troppo grande la disgrazia del
terremoto,
perché la Turchia possa ignorarlo. E la Turchia è anche consapevole
del
fatto che oggi il punto più caldo della nuova discussione mondiale
sui
diritti umani è centrato sulla condanna a morte. Forse c’ è ancora
speranza.