Fiamma Nirenstein Blog

Ecco come si vive con la paura dei kamikaze

giovedì 31 dicembre 2009 Il Giornale 4 commenti

Il Giornale, 31 dicembre 2009

In un altro mondo, quello in cui il terrorismo è vita quotidiana, come accade in Israele, l’eventuale bomba si chiama semplicemente «hefez hashud», oggetto sospetto. Quando lo si scopre sotto l’apparenza di un pacco, di una valigia, di qualsiasi cosa, si avverte la polizia che viene con un piccolo robot a farla saltare. È un’unità molto occupata. Un «hefez hashud» non fa urlare di paura, non induce a fughe inconsulte, non spinge a investigare con occhi ansiosi dove sia il rifugio più vicino, mentre ti chiedi semmai come passare sopra la testa dell’anziana signora in piedi dietro di te.

Dove il terrorismo delle bombe è uno slalom quotidiano, capita di fare tardi a un appuntamento. Sì, mi scusi tanto, c’era un «hefez hashud» sull’autostrada Tel Aviv-Gerusalemme. Sei fermo da un’oretta di fronte all’entrata di un ufficio, o di una scuola, di un grande magazzino dove hai lasciato un pacco e non puoi entrare finché non arriva il robot e danno il via libera? Pazienza, a volte capita, in una giornata puoi incontrarlo anche due volte. La radio annuncia con voce piatta durante le notizie sul traffico: «Rallentamenti sulla strada numero 6 per la presenza di un hefez hashud vicino a Bacha el Garbiya». Non lo dice mai durante le notizie. Ok, si sa, speriamo non ci siano altri contrattempi, altrimenti faccio tardi.

Si può vivere con la minaccia costante del terrore; è un pensiero remoto, una serie di comportamenti che diventano regolari, familiari, uno sguardo circolare che si fa abitudine, una veloce occhiata dietro la schiena. Ma anche una maggiore fame di vita, un indicibile gusto di incontrare, di parlare, di prendere l’autobus, di godersi gli amici nei posti pubblici. Mi ricordo, quando ogni angolo di Gerusalemme scoppiava, come, in visita a Roma, mi piaceva prendere l’autobus per Largo Argentina, godermi la folla in piedi, le curve in cui ci si attacca alle maniglie, chiedermi alle fermate, guardando i passeggeri che salivano, se magari ci fosse, lusso di un pensiero un po’ vano, un qualche ladro. Non dei terroristi. Che sollievo.

Nel Paese dell’«hefez hashud» impari a farti automaticamente verificare la borsa a ogni ingresso in un locale pubblico, scuola o supermarket; persino sulla porta della clinica ti frugano, e hanno ragione, alcuni si sono fatti scoppiare dal dottore; impari la tenerezza verso quei ragazzi che siedono sul panchetto fuori del caffè e per due lire fanno da scudo col proprio corpo al prossimo terrorista. Impari a tornare al tuo caffè, al tuo tavolo preferito dopo che è già saltato per aria una volta facendo una strage; anzi, ti piace di più tornarci per sberleffo, e per tigna vuoi il tavolo nella prima fila dopo l’ingresso. E anche se la seconda Intifada è finita, quando entra qualcuno con una giacca troppo voluminosa lo guardi bene, lo segnali al cameriere, valuti se allontanarti.

Durante l’Intifada chi poteva accompagnare a scuola i figli in macchina o a piedi evitava di prendere l’autobus, ma anche il contatto parafango a parafango in una città che è esplosa a ogni angolo ti fa ricordare che un tuo amico è rimasto ucciso nell’onda del fuoco quando è esploso l’autobus davanti al suo veicolo. Quando il terrorismo diviene parte della vita quotidiana, nel tuo mondo entrano feriti e famiglie orbate e che tali resteranno per sempre, perché il terrorismo comincia, non finisce con lo scoppio e resta con te per sempre.

Diventano normali episodi incredibili in cui c’è chi ci resta preso due, tre volte nella stessa città, bambini rimangono senza genitori, genitori senza i loro bambini, qualcuno perché mangiava una pizza, qualcuno perché faceva la spesa... Questo è il terrorismo, la guerra peggiore del mondo, quella contro i soli civili innocenti. E tuttavia si disegna una mirabile compensazione psicologica, ogni cena fuori è preziosa, ogni film che vedi al cinema è un godimento, il senso di solidarietà e la forza d’animo che si disegna fra la gente è speciale. Ognuno resta attaccato con le unghie e con i denti alla propria normalità, e quella normalità, quella mancanza di paura, quel restare vivo e attivo è la sua vittoria.

Una volta ho intervistato un cameriere del Café Cafit al Quartiere Tedesco, il quartiere bohémien di Gerusalemme: era uno studente bello e quieto che scoprì sul cancello del bar un terrorista carico di esplosivo, gli prese lo zaino e lo portò lontano dal pubblico.
Quando gli chiesi se aveva avuto paura disse che gli avventori erano cinquanta, lui uno solo, il resto veniva da sé. Mi raccontò anche che quando arrivò a casa, la mamma che aveva sentito tutto alla radio non gli dette il tempo di salutarla: gli tirò uno schiaffone. Ho sentito mille di queste storie. Così si fa quando si vive in mezzo aglii hefez hashud: si cerca di essere eroi, e di restare persone normali.

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Ilenia , Italia
 sabato 9 gennaio 2010  11:57:42

...sperando che questa volta il mio commento venga pubblicato (cercherò di censurarmi da sola così si sta più tranquilli) ...è una vergogna che si scriva un articolo così pieno di odio e pregiudizi nei confronti di un popolo che rivendica solo il suo diritto ad avere nuovamente la propria terra e la propria patria, entrambe sottratte dall'egemonia e dal terrore sionista. Perchè sono gli articoli così che fanno ricondurre al popolo palestinese l'idea di un popolo terrorista pronto a farsi esplodere appena gli capita un israeliano a tiro. Israele è molto bravo a fare la vittima..che si dice però delle vittime reali di Gaza per esempio? Senza dimenticare le vittime in Cisgiordania... "Come parlare della rivoluzione francese descrivendo le azioni violente da parte di giacobini e girondini senza spiegare cos'era stata la monarchia per il popolo fino a quel momento" (cit). E il paragone ancora non regge completamente...



Marco , Italia
 lunedì 4 gennaio 2010  02:55:14

Bellissimo e commovente articolo. Vorrei però sottolineare un punto, per cui mi sto battendo e che la prego di fare suo: sarebbe ora di smetterla di definire "kamikaze" degli assassini di non combattenti. I veri kamikaze (il nome, in giapponese, significa "vento divino", e si riferisce alle tempeste che salvarono il Giappone dall'invasione mongola del XII secolo) erano soldati che combattevano altri soldati, spinti dall'amore per la loro patria, e non dall'odio. Attribuire tale nome ai terroristi suicidi comporta il dare loro, inconsciamente, un'immeritata nobile eredità che i piloti giapponesi senza dubbio gli negherebbero. Buon 2010.



massimo sgrignuoli , ancona
 sabato 2 gennaio 2010  23:33:03

http://tg24.sky.it/tg24/mondo/2009/09/22/israele_palestinese_ucciso_a_un_check_point.html



massimo sgrignuoli , ancona
 sabato 2 gennaio 2010  23:30:53

io provo anche ad immaginare come sia vivere da palestinese sotto israele... e i check point"La Marcia Mondiale nei territori occupati in PalestinaScritto da Pressenza IPA - Roberta Ravani | Pubblicato: 15 ottobre 2009Sono partiti da Betlemme i membri dell'équipe mediorientale della Marcia Mondiale che ieri hanno visitato i territori palestinesi occupati. Insieme a loro rappresentanti dell'associazione Holy Land Trust di Betlemme, un'organizzazione no profit che da anni lavora per lo sviluppo non violento delle comunità palestinesi.Pressenza, Betlemme, 14/10/09Il 13 ottobre l'équipe mediorientale della Marcia Mondiale ha viaggiato su un pullman attraverso i territori occupati per incontrare alcune delle persone che, in modo nonviolento, lavorano quotidianamente per cambiare la situazione di oppressione in cui si trovano. L'équipe della marcia è stata accompagnata da alcuni membri dell'associazione Holy Land Trust di Betlemme, un'organizzazione no profit che sviluppa corsi per la non violenza e per la formazione di futuri leader politici locali."Arrivare a Betlemme è stato come entrare in un carcere temporaneo," commentano i marciatori "dalla moderna Gerusalemme, piena di vita e ordinata, si entra in una terra senza tempo dove luoghi sacri si mischiano ad atti crudeli e disumani."Il gruppo dei marciatori ha attraversato vari check point, alcuni dei quali con orari di "apertura" e "chiusura", percorso strade che senza il muro sarebbero state molto più brevi, visto villaggi divisi in due e parlato con famiglie i cui membri sono stati allontanati.Il tour ha fatto tappa in tre città: Abu Deis, in cui si è svolto l'incontro con Salah Ayad presso la Palestinian Water Society, Qalqilija e Ramallah. In quest'ultima l'équipe ha visitato il Palestinian Medical Reliefe Communities insieme al Dr. Alan Jarrad.A fine giornata i marciatori hanno commentato "E' fondamentale rimanere collegati con questa gente che non deve mai senti



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