E tutti corriamo impazziti a cercare i nostri figli
venerdì 5 settembre 1997 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME ERA accaduto a Mahanei Yehuda il luglio scorso, in pieno
mercato, fra la povera gente, dove i vecchi marocchini vanno a fare
la spesa in pantofole; è accaduto ieri, fra i ragazzi appena usciti
da scuola venuti a farsi un panino (la scuola finisce alle 15 e gli
scoppi in sequenza sono partiti alle 15,08 minuti), fra i turisti che
comprano nei negozietti da poche lire i souvenirs, fra i negozianti,
i camerieri (molti anche palestinesi), gli avventori dei mille
piccoli caffè della zona pedonale di via Ben Yehuda. Un punto di
Gerusalemme che dire vitale è dir poco: è il cuore della città
come essa vorrebbe essere, cioè il centro nel suo senso più
normale. Non la Città Vecchia, dove confliggono, si sfiorano, si
spintonano le tre religioni monoteistiche, contendendosi simboli e
monumenti. Qui, sul selciato bianco e rosa di pietra di Gerusalemme,
mangi tutt'al più una polpetta di McDonald con tuo figlio quando lo
vai a prendere a scuola; qui non ci sono altro che bazar, uffici,
negozi di biancheria, di blue jeans, di giocattoli. Ci vai
dall'avvocato, oppure a comprare un biglietto aereo, oppure a munirti
di un ricordo ebraico (un candeliere, una stella di David, una
T-shirt che prende in giro l'esercito) da portare in regalo a qualche
amico in Italia. Sono arrivata in tempo per spintonarmi con gli amici
e i familiari dei negozianti o di quelli che ragionevolmente potevano
trovarsi nella zona a quell'ora, per urlare ai poliziotti, insieme
con loro:
potrebbero essere qui. In tempo per calpestare i vetri caduti da
cento vetrine e cento finestre, per farli scricchiolare sotto i piedi
mentre cerchi di sfondare gli sbarramenti, e vedi al di là della
fila di poliziotti che ti impedisce di andare una grande macchia di
sangue sotto una finestra al secondo piano, brandelli di carne umana
ancora una volta raccolti dalle Compagnie di carità con i loro
sacchi neri e i loro grembiuli arancioni di plastica. Ogni negoziante
ha da raccontare una sua storia di orrore: ho visto un uomo morto fra
i giocattoli, dei bei giocattoli, qui nel negozio di fronte; una
donna completamente ammutolita teneva in braccio al Caffè Atara una
bambina piangente, anzi urlante. Ma la donna taceva, e la parte
superiore del suo braccio era completamente spappolata. Ma con quel
braccio seguitava a reggere la bambina, non ho capito come. Il Caffè
Atara, di recente riaperto dopo un periodo di chiusura, è uno dei
pilastri della storia di Gerusalemme, esiste da prima della
fondazione dello Stato ebraico. Ora ha da aggiungere alla sua
biografia due bombe, una a destra e una a sinistra; prima vantava
memorie di guerra in cui da Moshe Dayan a David Ben Gurion tutta
l'elite sionista delle origini veniva a mangiare una Sacher Torte e a
bersi un buon tè al limone tra una guerra e l'altra, un piccolo
riposo del guerriero. Ora il tendone verde è squarciato, i ricordi,
il passato, ancora una volta non sono uno scudo sufficiente contro il
presente. E a guardarsi intorno si vede che chi ha memoria, o anche i
giovani che hanno solo desiderio di presente, tutti quanti perdono la
speranza giorno dopo giorno. Lo capisco soprattutto guardando un
ragazzo coi lunghi capelli lisci accucciato per terra, il viso
triste. Non è arrabbiato, né spaventato. È soltanto triste come in
un grande lutto. Ci sono stati nella storia di Israele politici
migliori e peggiori, più disponibili alle concessioni e al dialogo,
più o meno simpatetici coi palestinesi: quello che non è mai
cambiato, però , è il terrorismo dei palestinesi, ed anche
l'atteggiamento di Arafat a partire dall'Accordo di Oslo. È appena
il caso di ricordare che gli attentati del periodo Rabin-Peres hanno
fatto 250 morti; e Netanyahu si avvia, dopo un periodo di relativa
tranquillità , a collezionare a sua volta un buon numero di morti.
Nulla è cambiato. È difficile per chiunque seguitare a sostenere
che quei morti erano contro il processo di pace; Hamas non lavorava
contro o a favore del processo di pace, lavorava semplicemente contro
Israele, in questo echeggiando un sentimento di rifiuto dell'intero
mondo arabo che non si è mai placato, anche se nel periodo di Rabin
e Peres è stato più blando, o comunque ammaestrato dai leader
dell'Autonomia Palestinese e in particolare da Arafat. Ma non si deve
e non si può dimenticare, per onorare la verità , tuttavia, che
Arafat, anche quando tentava di educare il suo popolo alla nuova idea
di pace, parlando in arabo e non in inglese ricordava soprattutto due
punti: il Trattato di Khodeida firmato dal profeta Maometto con la
tribù di Koreish per ottenere una pace subito rotta assoggettando di
sorpresa la tribù con cui l'accordo era stato fatto; e il fatto che
il Trattato di Oslo era in realtà una semplice realizzazione della
decisione del Consiglio nazionale palestinese del 1974 di conquistare
un'autonomia nazionale come base per proseguire nella lotta armata. E
mille volte, successivamente, Arafat non si è tirato indietro dal
lodare la lotta armata: ha esaltato l' Yahia Ayash dopo
che era stato assassinato (era ritenuto responsabile della morte di
50 israeliani); ha tollerato che dall'interno della polizia
palestinese partissero commandos terroristici; ha incontrato poche
settimane fa i leader di Hamas e della Jihad islamica abbracciandoli
e baciandoli in pubblico. Quale messaggio si può leggere in questo
comportamento? Non è un messaggio del tutto unilaterale: infatti non
è Arafat che spinge il suo popolo a mantenere un'opzione aperta
verso la lotta armata. È un circolo vizioso, per cui la ricerca del
consenso lo porta a mantenere aperte le porte al terrorismo, e porta
il terrorismo ad essere a sua volta un'opzione sempre viva, una
dimensione eroica, mitica, desiderabile dunque. Ad essere molto
estremisti nelle conclusioni, potremmo dire: dopo tutto, però , né i
palestinesi né il mondo arabo in generale sono obbligati ad
accettare lo Stato d'Israele qui. Ma allora che il discorso sia
chiaro, che sia questo e non un altro: quando si parla di terrorismo,
non si parla dunque di politica, si parla di odio. È vero: l'Accordo
di Oslo va troppo lentamente, ma è anche vero che ormai il 98% della
popolazione palestinese vive sotto l'autorità dell'Autonomia, e non
di Israele; è vero anche che durante la chiusura dei Territori,
messa in atto dal governo israeliano a seguito dell'attentato di
Mahanè Yehuda, la popolazione palestinese ha sofferto severi rigori
economici, difficoltà umane, personali, che hanno toccato anche gli
innocenti. Ma che dire del fatto che appena riaperti i Territori,
subito sono spuntati fuori i terroristi suicidi? È vero che la
contesa è viva, è vero che è dura, ma il continuo uso del
terrorismo rende tutta la vicenda squilibrata, impossibile ormai da
giudicare secondo parametri politici. La domanda dunque ormai è
grave: occorre qui un processo di pace, o esso non è più possibile
perché l'odio è inguaribile? Fiamma Nirenstein