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E la Chiesa di Roma entrò in sinagoga Quell'abbraccio a Toaff: uno sc hiaffo all'antisemitismo

giovedì 15 ottobre 1998 La Stampa 0 commenti
DUE immensi peccati aveva portato con sé il XX Secolo: l'ateismo liberticida comunista, e la inverosimile strage nazista degli ebrei. E poiché è vero che ogni grande passione di battaglia nasce dall'esperienza intima della carne e della coscienza prima ancora che da qualsiasi ben radicata fede o ideologia, ci voleva soltanto un papa polacco perché i suoi due grandi sogni fossero quello di por fine, o almeno qualche rimedio, sia al primo sia al secondo. È così che, anche se le polemiche in questi giorni accompagnano la canonizzazione di Edith Stein non finiranno in un momento, pure appare evidente che Giovanni Paolo per vent'anni di pontificato ha inseguito la ciclopica determinazione di chiudere, oltre al comunismo, la storia dell'antisemitismo cristiano: lui l'aveva ben visto tra i suoi polacchi al massimo della perversione collaborazionista durante l'occupazione tedesca; ma oltre che nelle campagne di Auschwitz, prima ancora aveva incontrato l'antisemitismo nel volgo razzista e baciapile, quello bassamente teologico della credenza medievale del "popolo deicida", quello superstizioso e ingenuo, quello politico e strumentale. Wojtyla sa quanto l'antisemitismo sia una piaga basilare, un coltello piantato nel cuore della Chiesa militante da lui vagheggiata, e ha ingaggiato la sua grande battaglia. Così , il 27 ottobre dell'86, ha preso la strada della sinagoga di Roma andando ad abbracciare il rabbino capo Elio Toaff. E là ha detto ai suoi fedeli: "Guardate bene, questi sono i nostri fratelli maggiori, non fantasticate più di nient'altro". Qui, con la visita, compiva un evidente primo gesto di ammenda, anche se probabilmente ha ragione chi sostiene che nelle sue parole vibrava un senso di superiorità , di acquistata primogenitura nella vera fede. Perché , e qui è un tratto dell'intero papato di Wojtyla, il suo orgoglio di militante di una grande religione maggioritaria non confligge, per lui, con la mano tuttavia chiaramente tesa verso la religione generatrice della sua, e finalmente legittimata. Ed è difficile chiedere a un Papa che non resti il maggior propagandista della sua propria fede; l'importante fu, e resta, che proibisse la denigrazione dell'ebraismo come religione superata o vituperabile in qualche modo, ma che anzi, l'accogliesse al suo fianco. Su questo senso di essere, per così dire, dalla stessa parte della barricata, Wojtyla insistette alquanto il 27 ottobre dell'86, invitando ad Assisi i rappresentanti delle tre fedi monoteiste a pregare per la pace. Era come se dichiarasse che di fronte al problema più grande del mondo gli ebrei sono indispensabilmente desiderati come testimoni dal Creatore. Il più importante dei gesti del Papa resta tuttavia lo stabilire relazioni diplomatiche con lo Stato d'Israele il 30 dicembre del '93, riconoscendolo: gesto coraggioso, perché portatore di contrasti col mondo arabo e di conseguenza con la minoranza arabo-cristiana sempre messa duramente alla prova dalla storia. E gesto di enorme valore teologico, perché , riconoscendo agli ebrei il diritto alla loro terra, toglieva loro di fatto ogni destino di punizione per la morte di Gesù , e li restituiva a una vicenda storica di progresso e quindi alla possibile felicità agli occhi di tutto il mondo. Infine il Papa ha preso di petto la sofferenza di Auschwitz affrontandone gli aspetti di strage di parte cristiana in Europa: il 21 maggio del '95 ha chiesto scusa per il male fatto ai fratelli di altre confessioni, ed altri documenti sono seguiti. Su Auschwitz tuttavia appare come se questo Papa, così sofferente nel corpo (e forse anche il suo calvario fisico fatto di fratture, di operazioni, di malattie dolorose lo avesse guidato nel capire la Shoah) fosse restio a lasciare la persecuzione nazista tutta quanta agli ebrei; come se dentro di lui ci fosse una sorta di dictat teologico che lo spinge a cercare di prendere sulla Chiesa almeno una parte della croce dell'Olocausto. Da qui, così appare, forse, l'insistenza sulla presenza cristiana su Auschwitz e anche la canonizzazione di Edith Stein. Chi scrive non vi vede un'usurpazione, ma piuttosto lo smarginare, il dilagare di un lungo viaggio nato da un sogno, che ancora cerca il suo approdo. Fiamma Nirenstein

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