È iniziata l’era Trump
Shalom, aprile 2017
Usa e Israele consapevoli finalmente di essere legati da uno stesso destino. Può bastare per essere ottimisti?Il Medio Oriente entra nell’era Trump, e nessuno sa veramente dove questo possa portare. Quello che tutti hanno letto sui giornali è che il nuovo presidente americano ha promesso “l’accordo ultimativo” fra Israele e i palestinesi, e davvero più alta ambizione non fu mai espressa, dati i precedenti. Tanti tentativi, tanti fallimenti, tanta buona volontà, tanta smania distruttiva. Basta pensare a Rabin e Arafat alla Casa Bianca, a Bill Clinton con Ehud Barak e Yasser Arafat a Camp David. Quanti sorrisi sprecati. Ma guardiamo finalmente al bicchiere mezzo pieno: la prima settimana di marzo 19mila persone riuniti a Washington da tutti gli Stati Uniti per la conferenza programmatica dell’AIPAC, la maggiore organizzazione ebraica americana, hanno seguito da destra e da sinistra con grandi dimostrazioni di consenso e supporto tutti gli interventi che da parte dell’amministrazione appena eletta (Trump non c’era) testimoniavano quanto fosse cambiato il clima verso Israele. La vera star è stata l’ambasciatrice all’ONU Nikki Haley applaudita dai vari leader democratici e repubblicani presenti nell’immensa assemblea, e anche il vicepresidente Michael Pence ha ricevuto grandi consensi.
La Haley dal momento della sua nomina, quando il suo debutto fu segnato da un magnifico discorso sull’importanza di Israele per il mondo e per il suo Paese e sull’evidente discriminazione, anzi, sulla persecuzione di cui soffre nell’ambito delle istituzioni onusiane, non ha perso occasione di ripetere che non ci saranno più gli insopportabili attacchi che Israele ha dovuto subire persino con la complicità americana, e che non ci sarà mai più una frattura fra i due Paesi che sono la bandiera della democrazia e della libertà nel mondo. La posizione della Haley segnala un rifiuto a misurare Israele secondo i parametri dei palestinesi, e a misurarne l’importanza a seconda di quanto cede sul tema “due stati per due popoli” ma a proporre parametri nuovi di apprezzamento, quelli che Israele merita: democrazia, rispetto delle donne, del dissenso, delle minoranze, progresso tecnologico, medicina, agricoltura, dignità e autodifesa. Il punto di partenza nel rinnovamento dei rapporti che potrebbero portare a dinamiche sconosciute nell’ambito del processo di pace sono prima di tutto legate al diverso rapporto fra gli USA e il governo israeliano. Posto che sia l’amministrazione Obama che quella Trump abbiano avuto, e abbiano, in cima ai propri desideri in politica internazionale quello di piantare la bandiera americana su un accordo israeliano-palestinese, la strada scelta al momento sembra avere caratteri opposti: Obama si mise in mente che quanto più si fosse distanziato con antipatia, con astio, con evidente disapprovazione da Netanyahu e avesse richiesto come un passo moralmente indispensabile (tanto da fare arricciare il naso e comminare condanne morali a tutto il mondo compresa, in testa, l’UE) il cosiddetto “ritorno ai confini del 67” (mai esistiti, come ogni libro di storia ci può testimoniare, specie nella veste di determinazione di un, anch’esso mai esistito, stato palestinese) tanto più avrebbe costretto Israele all’angolo di un accordo territoriale secondo le richieste palestinesi. In questo clima è cresciuto il movimento di boicottaggio e l’antisemitismo.
E’ stata una scelta molto specifica, molto politica data la complessità e le evidenti responsabilità dei palestinesi nel mancato raggiungimento di un accordo. Una scelta molto osèe, come tutte quelle che hanno causato i ripetuti fallimenti di Obama in Medio Oriente: era una scelta messianica, legata allo show continuo di una preferenza per il mondo arabo che per esempio ha impedito di identificare il terrorismo islamico molto a lungo, legata certamente alla sua convinzione che parlando a quel mondo con dolcezza si sarebbe ottenuta la pace mondiale, e si sarebbe placato il terrore. Era una scelta anche legata al fatto che nella sua cultura stessa, nella sua storia personale, le identità erano mescolate: Obama ha pensato, ed è comprensibile, di poter riprodurre il pattern che l’aveva portato al successo personalmente.
Ma non è andata così, non solo in Israele, ma anche in tutti gli altri paesi mediorientali fra cui, soprattutto, l’Egitto, in cui lo sforzo di vedere la Fratellanza Musulmana come un interlocutore moderato ha portato a disastri; e soprattutto la Siria terra, ormai, di indicibile orrore. Per Obama, dunque, c’era solo un modo di conquistare la pace per Israele: guardare ai territori come all’issue principale del contendere, e quindi cedere, e ancora cedere secondo le richieste palestinesi. Gli insediamenti sono stati per Obama il paradigma, il prisma unico attraverso cui guardare al conflitto e, ancor più, a Israele stessa. E niente poteva essere più sbagliato. Ma questo, i lettori lo sanno. Qui viene Trump, e le speranze attuali: Trump ha detto durante la visita di Netanyahu alla casa Bianca qualcosa di inaspettato “fate quello che vi pare, uno stato, due stati, basta che si arrivi a una pace”. Dopo di che ha intrapreso due strade parallele: ricucire con Israele da una parte, e dall’altra esplorare la disponibilità dei Paesi arabi moderati a una pace complessiva, che dia vantaggi a tutti quanti secondo una sua visione utilitaristica, si può dire forse classica nel mondo degli affari. Così ha mandato l’inviato presidenziale per il Medio Oriente Jason Greenblatt a parlare un po’ con tutti. Greenblatt, un ebreo religioso che per l’occasione ha messo nel cassetto la sua tradizionale kippà bianca e ha indossato un’ideale feluca, ha visto i membri della Lega Araba riuniti ad Amman; ha incontrato Abu Mazen; si è visto col ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry; col ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi. Naturalmente ha incontrato Netanyahu a Gerusalemme e gli ha chiesto, come Trump, di andarci piano con le costruzioni, mentre però si seguita a parlare in toni positivi di un passaggio dell’ambasciata americana nella capitale d’Israele.
Il messaggio è complesso, tipico di un processo in fieri, una scelta peraltro condivisa dal governo israeliano: possiamo dissentire, ma alla fine siamo sulla stessa barca. Per ora, questa è la maggiore novità insieme all’incontro col mondo arabo nel suo insieme, un incontro che tiene conto di quanto la parte sunnita tema il rafforzamento del maggior nemico di Israele, l’Iran sciita che mostra la sue ambizioni imperialistiche in tutto il Medio Oriente. Il tavolo è larghissimo, perché include anche la Russia di Putin, che si avvale degli iraniani e degli hezbollah in Siria. Un tavolo dunque dove le puntate del gioco d’azzardo sono molto elevate: impossibile pensare di giocare senza gli USA. Tutto è ancora segnato da punti interrogativi dunque. Si capisce tuttavia che Trump intende praticare quel tavolo largo, in cui entrino in gioco un dialogo su temi di assoluta importanza per Israele oltre alla questione palestinese. In altri termini, la logica di Trump suggerisce a Israele certamente che la questione degli insediamenti deve adesso essere affrontata tenendo conto che gli americani possono con la loro politica fermare, o almeno rallentare l’imperialismo Iraniano ormai a ridosso di Israele sui confini siriano e libanese che arma gli Hezbollah e Hamas di missili letali.
Certo tutto questo deve essere bilanciato con la sicurezza e anche con lo scontro ideologico dentro Israele. Proprio in questi giorni è passato il progetto di costruire un nuovo insediamento per le famiglie espulse da Amona, che è stata sgomberata, ma Netanyahu ha annunciato, fra le proteste della destra che pure siede nel suo governo, che il nuovo insediamento sarà contenuto territorialmente secondo le richieste americane. E’ un giuoco difficile per tutti, ma è un’occasione ricca di opportunità nuove, fra cui quella di un rapporto con l’ONU in cui gli americani siano alleati attivi, e anzi pronti a ritirare finanziamenti e presenza contro la persecuzione e la discriminazione di Israele. Trump punta a un summit in cui i sauditi e gli altri Paesi Arabi del Golfo, e non solo i Paesi già in pace con Israele, mostrino per ora al mondo almeno una plateale stretta di mano. Sarà possibile?
L’amministrazione Trump sembra pensare che quella strada non solo sia praticabile, ma che dia il via a un diluvio di benefici e convenienze per il Medio Oriente e per il mondo. Il problema è che spesso l’ideologia sovrasta il buon senso, l’antisemitismo se ne infischia della stabilità e persino del benessere, la sete di sangue infedele disegna per l’Islam orizzonti di un santo potere infinitamente desiderabili. Fino ad ora è andata così. Adesso vedremo se è arrivata l’era del business… ma ne dubitiamo.