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E’ FINITO IL TEMPO DELLE PROMESSE E DEI RINVII NELLA LOTTA AI GRUPPI FONDAMENTALISTI CHE PREDICANO LA GUERRA SANTA Il bivio di Arafat: reagire oppure soccombere

lunedì 3 dicembre 2001 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME MA che cosa sta facendo Arafat, si chiede tutto il mondo. Non bastano le accattivanti descrizioni della sofferenza palestinese: il terrore non ha giustificazioni, e qui in queste ore ce n'è stato troppo. Un attacco concentrico, l'11 settembre di Israele: così vengono vissute in Israele queste ore di mattanza terrorista. Dopo l'esplosione dell'autobus di Haifa, un uomo magro e terrorizzato dai lunghi capelli grigi, gridava saltando: « Il tetto è scoppiato, e ho visto gli uomini volare verso l'alto» . Gerusalemme spalancava ieri occhi increduli sui funerali dei suoi ragazzini usciti qualche ora prima per un po' di musica: mentre si piangeva la strage, saltava per aria l'autobus di Haifa. Da parte palestinese, si è dichiarato lo stato di emergenza, Arafat chiama di nuovo l'intervento internazionale, mentre promette arresti e sequestri di armi. Per ora sono parole, su cui si accumulano altre parole, mentre Bush guarda stupefatto cosa hanno fatto al suo inviato, ridicoleggiandone la missione, e Israele non ce la fa più . Gli uomini di Arafat parlano volentieri più di sempre ai microfoni israeliani: Jibril Rajub il capo della polizia palestinese ha promesso di arrestare i terroristi, di chiudere le organizzazioni, di sequestrare le armi illegali. Lo stesso ha detto Ziad Abu Ziad, che ammonisce a non delegittimare Arafat, che altrimenti gli subentrerà una leadership estremista islamica. Sarin Nusseibah, chiede a Israele di farsi leader anche per i palestinesi (testuale), e di trattenersi. Anche lui dice: « lasciateci fare, speriamo di arrestare i colpevoli» . Ma la promessa ormai è vecchia, è stata ripetuta anche dopo l'assassinio del ministro Rahaman Zeevi. Ogni volta che con la mallevadoria americana le parti si sono accordate su un cessate il fuoco, il Raì ss palestinese ha ripetuto la sua promessa di far tacere le armi, di far cessare il terrore. E non è mai accaduto. Le azioni terroriste si sono susseguite senza tregua: il governo israeliano ha risposto quasi sempre (non dopo l'attacco alla discoteca di Tel Aviv, 25 morti) con rappresaglie pesanti, ma limitate nel tempo, come l'occupazione delle zone A cui è stato posto rapidamente termine anche su spinta americana. I terroristi sono stati braccati dalla politica di eliminazioni: certo una ragione di grande rabbia fra i palestinesi. Le formazioni terroriste, sempre più allargate a tutte le fazioni dall'Autonomia - Hamas, Jihad, Fatah - hanno seguitato a fare di Israele un specie di poligono di tiro per ogni genere di terrorismo: autobus che scoppiano, agguati, bombe al lato della strada, autobombe. Mai si era arrivati, tuttavia, a questo punto: ma perché proprio adesso, mentre Anthony Zinni è nella zona per cercare un accordo indispensabile agli Usa in tempo di guerra americana? Perché l'Autonomia Palestinese si comporta di fatto in modo tale da mettersi fuori della Coalizione antiterrore a cui gli americani tengono tanto, per dimostrare al mondo che la loro non è una guerra di religione? Al centro di tutte queste domande c'è Arafat. Molti dicono che sia troppo debole per reggere la rabbia del suo popolo ferito e sofferente, sempre più affascinato dall'integralismo aggressivo di Hamas e della Jihad. Il settanta per cento dei palestinesi secondo le rilevazioni più recenti, ormai è favorevole agli attacchi terroristici. Altri invece sostengono semplicemente che la tattica di Arafat è , dal gran rifiuto di Camp David, quella di tenere a bollore l'area per ottenere il più possibile da un'eventuale riapertura di trattativa, mentre resta aperta sul piano internazionale una grande offensiva propagandistica, molto ben riuscita, di ramo di ulivo. A queste due opposte valutazione sottende quella basilare, strategica, che vede Sharon da una parte e Peres dall'altra: Arafat non è un partner per la pace, dice il primo ministro, di pace si parlerà quando gli subentrerà una leadership più democratica e ben disposta verso Israele. Oppure, come dice Peres: Arafat è l'unico partner possibile per la pace, dopo di lui c'è il diluvio dell'estremismo. Ma quello che è accaduto durante questi mesi di Intifada parla in realtà di una situazione assai più sfumata e complessa: Arafat, vero interprete di ogni pulsione della sua gente, non vuole certo passare alla Storia come il traditore del suo popolo, colui che si è consegnato agli americani e agli israeliani, mentre il suo popolo, che ha avuto tanti morti, vuole scontrarsi fino alla vittoria. Nel tempo, ha scelto di pagare alla sua « unità nazionale» il prezzo minore possibile: gli arresti, quei pochi obbligati, sono durati pochissimo; le armi circolano liberamente; Hamas e la Jihad hanno sempre saputo che le loro attività non sarebbero state duramente perseguite, e rispettano il Raì ss mentre lo minacciano. I cuori battono insieme per la Palestina, anche se i mezzi politici possono divergere, e alla fine Hamas non rappresenta tanto un'alternativa ad Arafat, quanto un suo pur capriccioso e pericoloso sodale. Intanto, all'interno di Fatah e dei Tanzim, le organizzazioni di base di Fatah, si è sviluppato un'alleanza sempre più robusta con le altre organizzazioni. I terroristi suicidi ormai non provengono più , come un tempo, da strati bassi della popolazioni, non si tratta più di poveri ragazzi che conoscono solo ciò che hanno appreso alla Moschea. Il terrorismo suicida è una specie di spaventevole tabe cultural-politica diffusasi quasi in ogni strato della popolazioni, con motivazioni nazionali, lievemente connotate di fanatismo religioso. La tigre è diventata adulta, sempre più difficile da cavalcare, è chiaro che Arafat rischia grosso se adesso taglia via Hamas dal consenso nazionale: rischia una vera guerra civile perché non ha osato contrapporsi dall'inizio alla tendenza all'unificazione di tutte le parti su una linea estrema, e ha lasciato che divenisse popolare e maggioritaria; nello stesso tempo, ha proseguito nelle sue dichiarazioni di disponibilità a un processo di pace, mentre però le sue tv e la sua stampa seguitava in un atteggiamento di violentissima demonizzazione del nemico. Ora però i giochi stanno quasi a zero: la tigre ha azzannato troppo a fondo, adesso Israele non ne può più , e comunque il contesto internazionale invece di esserle di handicap, come all'inizio del conflitto, la mette in condizione di combattere contro la sua condizione di vittima del terrore. Ora o mai più : la via di uscita di Arafat è combattere contro Hamas, oppure trovarsi insieme ad Hamas davanti al mondo e soprattutto agli Stati Uniti.

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