DUE « NORMALI» BOMBE UMANE I PROTAGONISTI DEGLI ATTENTATI SUICIDI DI DOMENICA E IERI A GERUSALEMME KAMIKAZE La studentessa-infermiera
giovedì 31 gennaio 2002 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
NON indossava abiti lunghi né maniche chiuse al polso, e non portava
il
velo sul capo, come prevede l’ Islam. Aveva invece una frangetta
civettuola,
una faccia tonda con la bocca a cuore e un sorriso da giovane donna
con
qualche dispiacere, poiché era una donna di 28 anni divorziata in una
società che non ama che si rompa una famiglia, e che certo le
chiedeva di
fare figli mentre lei non ne aveva potuti avere. Ma queste sono
storie di
normale tristezza femminile.
Domenica scorsa Wafa Idris è uscita di casa di prima mattina, ha
salutato
normalmente la madre dicendole « ci vediamo piú tardi» e poi, dopo
essersi
forse fatta accompagnare da quelli che in ogni attacco suicida
devotamente
svolgono il loro pur secondario compito di morte, è andata con un
grosso
carico di esplosivo a farsi saltare per aria nel tragico centro di
Gerusalemme per l’ ottavo attentato nella stessa zona dove vi sono
stati già
cinquanta morti in poco più di un anno.
E’ saltata per aria dove cinque giorni prima erano stati fatti due
morti e
decine di feriti. Stavolta invece Wafa Idris ha ucciso se stessa e un
anziano signore che aveva fondato il Club della bicicletta, e ha
fatto
settanta feriti. E ha battuto un record poco invidiabile: essere il
primo
« shahid» , il primo martire terrorista-suicida donna in questa
Intifada
iniziata nell’ ottobre dell’ anno scorso.
Wafa Idris era una paramedica del Red Crescent, la Croce Rossa
palestinese.
Gli israeliani sostengono da tempo che questa organizzazione è ormai
divenuta estremamente militante, ben oltre i compiti medici. La mamma
di
Wafa racconta che spesso la figlia le aveva detto che voleva morire
da
« shahid» , che l’ aveva ripetuto ancora tre giorni prima: aveva molto
sofferto
nella sua veste di infermiera, racconta la madre, vedendo morti e
feriti
palestinesi, tanta sofferenza continua, tanti bambini portati
all’ ospedale
durante gli scontri; lei stessa era stata colpita per ben tre volte
dalle
pallottole di gomma durante le manifestazioni.
Viveva nel campo profughi di Al Amaari, alla periferia di Ramallah, e
dal
suo abituale, infelice soggiorno si è avviata verso il vicino centro
di
Gerusalemme, in Jaffa Road: una scelta molto politica, addirittura
strategica data la catena di eventi dei giorni scorsi tutti mirati a
fare di
Gerusalemme proprio nei suoi quartieri più tradizionalmente ebraici
una
sorta di invivibile Ground Zero. La giovane donna era parte del ramo
laico
del movimento, Al Fatah: anche i suoi tre fratelli, tutti più grandi
di lei,
appartengono all’ organizzazione di Arafat. Una famiglia in cui spesso
si
doveva parlare di politica.
Quale terribile demone ha agito sulla giovane donna dal volto rotondo
per
portarla a dilaniarsi la carne in modo da uccidere quanti più
israeliani
possibile? Una donna laureata, con un mestiere in mano, di piacevole
aspetto? Wafa è la prova, come dice l’ islamologo Daniel Pipes, che
ormai non
sono gli strati più religiosi e miseri della popolazione a farsi
suicidi, ma
che è fra i giovani studenti che l’ ideologia dello « shahid» ha preso
piede.
Di certo una molla è quella che indicano la madre e la sua migliore
amica,
Manal Shain: la rabbia e la sofferenza.
Ma nella biografia di questa ex studentessa dell’ Universitá di
Nablus, Al
Najah, in cui sono giá stati allevati parecchi leader di Hamas e di
Tanzim,
il segno caratteristico di tutta la galassia del terrorismo suicida,
nuova
fondamentale figura del nostro tempo, è l’ estremismo, l’ odio, il
desiderio
di annientare il nemico, la voglia di distinguersi in una guerra che
dall’ interno appare come totale e talora vincente. Wafa deve avere
vagheggiato la figura dello « shahid» perché in coro la invocano la
tv, la
radio, i giornali, la esaltano tutti i leader nei loro discorsi
pubblici:
per una donna, una forma di emancipazione assoluta; per tutti di
glorificazione eterna per sé e la propria famiglia.