Fiamma Nirenstein Blog

DUE LEADER CONDANNATI ALLA PACE

lunedì 18 dicembre 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein TANTO per dare l'idea della drammaticità della danza mediorientale nelle prossime ore: « Lei intende dire che Arafat, se conclude ora un accordo con Barak, potrebbe prendersi una pallottola in testa?» , chiede una giornalista radiofonica israeliana a Fares Khadoura, uno dei capi dei Tanzim, la milizia armata palestinese di base. « Noi non parliamo in questi termini: ma se l'accordo non corrisponde alle nostre giuste richieste, ovvero la restituzione di tutti i territori nei confini del ‘ 67 compresa Gerusalemme, e il ritorno dei profughi, allora Arafat, che tuttavia è il nostro capo riconosciuto, potrebbe trovarsi di fronte a una situazione di forte dissenso. Ogni ripresa di colloqui oggi è una perdita di tempo. L'Intifada deve continuare» . E sempre a proposito, il ministro Yossi Beilin, uno dei cervelli della squadra di Barak, non si scompone affatto al pensiero della « pallottola in testa» , stavolta per tutti e due, Barak e Arafat. Dice solo: « I veri leader non si fermano di fronte al rischio» . In questo modo si parla della riapertura del processo di pace. E' quindi fra un fischiare di pallottole non solo virtuale, dato che ieri gli spari hanno continuato e hanno lasciato sul terreno morti e feriti, che sono risuscitati i colloqui e come per miracolo sono decollati verso Washington gli emissari delle due parti in conflitto, in previsione di un rapido incontro fra Barak e Arafat e persino di una visita nell'area di Bill Clinton. Che cosa ha reso possibile dopo tanto sangue il riaprirsi almeno di consultazioni? Innanzitutto lo stato d'animo angosciato e luttuoso dei due popoli, delle famiglie orbate, il vicolo cieco alla fine del quale c'è solo morte. E poi, la necessità politica dei leader, tutti e due di nuovo costretti a gettare sul tavolo la propria posta,lo vogliano o meno. Così , un Barak ormai in vista di disperate elezioni e un Arafat impigliato nella rabbia del suo stesso popolo e nella dura reazione israeliana, hanno impegnato tre emissari per parte in una teoria di incontri specie notturni avvenuti negli ultimi quattro giorni in cui si riprendeva in mano il « piano Clinton» , quello di Camp David, ormai però consapevoli, ambedue, delle suscettibilità e dei confini invalicabili dell'interlocutore. Le condizioni per riaprire ci sono: Arafat che esigeva una discussione bollente, in cui fosse chiaro al mondo quanto sia dura la lotta palestinese, ora ci può contare; Barak , abbandonato senza pietà dall'elettorato che dà a Netanyahu il 50 per cento delle preferenze e a lui il 31, cerca una svolta che dimostri che il campo della pace non è guidato da illusi e di utopisti, ma da leader capaci e realisti che possano ancora dare a Israele un futuro in cui i giovani non debbano morire o uccidere. E negli Usa, ecco Bush, che i palestinesi dicono di preferire a quel filoisraeliano di Clinton, ma in realtà se Clinton aveva una predisposizione sentimentale verso il significato di rinascita dello Stato d'Israele, pure si era dimostrato molto disponibile (anche economicamente!) verso i palestinesi e il mondo arabo in generale. Magari, invece, il nuovo presidente potrà essere meno affettuoso verso il piccolo stato sempre stretto d'assedio, ma Arafat sa che sarà certo meno propenso all'idea di concordia globale con mondi diversi, primo fra tutti quello musulmano, che invece è stato il sogno di Clinton. Arafat e Barak sanno tutto ciò . Nonostante i disastri in corso dalla fine di settembre, sono i legittimi padri della situazione lasciata a mezzo a Camp David. Devono rimetterci le mani prima che lo faccia qualcun altro al posto loro.

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