Dopo una campagna elettorale fiacca e rancorosa Israele si prepara a scegliere il premier Due primedonne e tre comparse Sfida all'ultimo voto tra Ne tanyahu e Barak
venerdì 14 maggio 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
nostro servizio da GERUSALEMME
Tutta la storia delle elezioni di lunedì prossimo porta il titolo
"Fare fuori Netanyahu". E per lui: "Vincere alla faccia loro, alla
faccia del mondo che non mi vuole, dei media che mi odiano, e
soprattutto della elite ashkenazita", che nonostante egli venga dal
suo ventre lo ha sputato via, come sputò via suo padre, il vecchio
durissimo Benzion che nella vecchia casa del quartiere di Katamon,
un modesto quartiere di Gerusalemme, seguita a scrivere libri di
storia sulle infinite persecuzioni degli ebrei. A guardarli uno per
uno i candidati in lizza fino a ieri, ma che forse non resteranno
tutti in campo fino in fondo, si vede un film molto molto
drammatico, in cui arrivano all'appuntamento fatale quattro persone
che non potevano mancare, che giocano un ok corral non solo perché
si corre da Primo Ministro ma perché in questo strano Paese è in
corso un gioco durissimo, e rien ne va plus. Qualcuno deve
spuntarla, altrimenti tutto va a pezzi: lo stato laico, la pace, la
democrazia parlamentare, il collage di etnie...
Bibi, il primo candidato, lo si conosce: un ex ragazzo super
brillante, un soldato senza paura. Certo, non il mostro disumano
descritto soprattutto dalla sinistra, anzi un uomo colto che non
manca di visione; ma sostanzialmente un insicuro, in gara con la
memoria del fratello morto da eroe a Entebbe, e in rotta di
collisione tutta la vita con quel gruppo dirigente minacciosamente
colto e sensibile, depositario dei migliori sentimenti, le anime
belle che in Israele sono sempre state egemoni. Il suo unico vero
sfidante viene appunto da lì : è Ehud Barak, timido e
intelligentissimo, un ego gigantesco, figlio del kibbutz Mishmar
Asharon, un raduno di intelligencija polacca patriottica e
socialista. Il suo curriculum di soldato è il migliore di Israele,
capo di stato maggiore e alter ego militare di Rabin, fantastico
nel suo travestimento da donna quando a Beirut, al tempo del
terrorismo, cercava di assassinare Arafat.
I due si può dire sono i portatori di un reciproco odio
ontologico, che non riguarda tanto le loro posizioni politiche,
quanto il loro modo d'essere.
Gli altri candidati sono minori, ma non meno interessanti: Yitzhak
Mordechai è il primo candidato sefardita della storia di Israele.
È un curdo di durissima cervice, un cinquantenne appena sposatosi
con una bella ragazza che gli ha partorito un neonato, ex ministro
della Difesa di Netanyahu, la colomba del suo governo da cui ha
divorziato con rabbia: il suo essere un religioso, un moderato
pacifista, un sefardita, ne facevano l'uomo ideale per un partito
di riconciliazione. Invece non è andata così : il conflitto è
tuttora troppo aspro per placarsi intorno ad un uomo solo.
I pronostici che lo riguardano sono ormai miserevoli, e la sinistra
lo supplica senza successo di togliersi di mezzo per lasciare i
voti a Barak, che così potrebbe vincere al primo turno: ma il
durissimo curdo non ne vuole sentir parlare.
Benny Begin, figlio di Menahem, un vero signore: anch'egli fuggito
dal Likud, ed è il capo di quello che potremmo chiamare con
traduzione approssimativa "Alleanza Nazionale": vorrebbe essere il
primo ministro dei coloni, il portabandiera di quello spirito
altezzoso e moraleggiante che non scorda neppure per un istante
l'Olocausto, e che ne trasferisce la logica di accerchiamento su
Israele. È possibile che si tiri indietro per lasciare, con
disprezzo, i suoi voti a Netanyahu. Quando lo si
guarda, allampanato e irato, viene in mente con pena la sua
infanzia segreta e sempre zittita trascorsa in un nascondiglio con
il padre in clandestinità nella lotta contro gli inglesi.
Azmi Bishara, quarantenne cristiano, di educazione internazionale,
è il candidato del nuovo partito arabo, e nasconde sotto i baffoni
neri uno spirito di raffinato filosofo, un'anima tipica della più
elegante disillusa identità araba. La sua candidatura è di per
sè un'affermazione d'identità , una buona sfida, un memento
democratico al rispetto del venti per cento della popolazione
israeliana, che è appunto araba. Se si presenta davvero, farà un
cattivo servizio a Barak. Ma sembra si debba tirare indietro da un
momento all'altro, forse addirittura domani.
I due candidati veri hanno svolto una campagna poco elegante,
molto etnica, e senza nessuna alzata d'ingegno: Netanyahu ha
compiuto sbalzi improvvidi e in definitiva controproducenti, come
visitare calorosamente la leadership russa (ormai ex) guidata da
Primakov per accattivarsi la grande comunità locale. Ha usato le
immagini degli autobus scoppiati per rivendicare la sua abilità
del combattere i terrorismo. Ha giocato di nuovo molto a destra e
sul terreno religioso, lui che religioso non è e che in ogni caso
è stato destituito del potere di primo Ministro da destra proprio
per l'accordo di Wye e cede il tredici per cento ai palestinesi:
questa linea lo costringe a mostrare continuamente il fianco. Così
per bilanciare Bibi si esibisce in pesanti uscite populiste che non
piacciono alla parte migliore del suo partito, e cerca l'alleanza
con Schass, il partito religioso che in questo momento, avendo
avuto il suo leader Arieh Deri condannato per corruzione, non è
certo la migliore reclame. L'ultimo attacco alla stampa è un
ulteriore salto della quaglia verso destra, di quelli che finora
non gli hanno fruttato nient'altro che un divario in negativo di
una decina di punti rispetto a Barak.
Non è che la campagna di Barak, basata molto sul suo eroico
passato di militare, sia stata particolarmente convincente. Resta
vaga la sua piattaforma di pace, vago il suo atteggiamento verso
gli insediamenti, forte il suo desiderio di accreditarsi come un
difensore della sicurezza, proprio come Netanyahu cerca di
accreditarsi come difensore della pace. Lo scontro politico è
debole. Il punto vero è il carattere di Netanyahu: si vota sulla
sua personalità , sulla domanda: "Abbiamo un primo Ministro
bugiardo?". E tutti sanno che Bibi lo è . Ma, e come diceva a un
giornalista di Haaretz un tassista qualche giorno fa: "Lo è , ma lo
fa per noi, e la gente ci crede, allora sono guai per Barak".