DOPO LE ULTIME STRAGI AVVOLTO DA UNA SENSAZIONE DI SCORAMENTO L’ eserc ito, il cuore della nazione che non sa trovare una strategia
giovedì 21 febbraio 2002 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
LA segreteria telefonica di Beni Kikys dice così : « Se non rispondo,
o sto
dormendo o sono di guardia. Per favore, lasciate un messaggio» . Lo
racconta
con singulti di incontenibile strazio la madre di Ben. Perché suo
figlio, 20
anni, è uno dei soldati uccisi l'altra notte dentro la garitta del
posto di
blocco di Ein Arik, dove sono stato uccisi da un commando di tre
palestinesi, probabilmente del Fatah di Arafat, sei soldati di leva.
« E io
seguito a lasciargli messaggi, che magari si svegli e chiami la sua
mamma.
Gli dico: piccolo, non ti esporre, stai attento, amore, difenditi,
proteggiti» . Ma ormai è finita.
Dal dieci di questo mese sono stati uccisi almeno 10 soldati
israeliani di
Tzahal, il fortissimo esercito d'Israele, e un poliziotto. Il
quotidiano
palestinese ufficiale di ieri mattina chiede di escludere dai
colloqui Abu
Allah e altri moderati, perché agli occhi dell'Autonomia Palestinese
questo,
nonostante i lutti e il bruciante contrattacco israeliano, è un
momento in
cui « se accettassimo di calmare le acque perderemmo molto» . Ovvero,
le
vittorie dirette sull'esercito israeliano si sono sommate fino a
costituire
una sensazione di cambiamento strategico e di vittoria, che
dall'altra parte
si traduce in scoramento e disorientamento.
L'esercito è il cuore di Israele, con la lunghezza infinita del tempo
di
leva (due anni e mezzo), con i suoi servizi di riserva che durano
fino a
cinquant'anni, con il suo codice morale sempre dibattuto, vantato
come il
codice più morale del mondo, talvolta violato, e poi recuperato dopo
scontri
micidiali con la stampa, il potere giudiziario e i politici (l'Alta
Corte in
mezzo agli scontri ha fatto bloccare martedì la demolizione di case
lungo
una strada in cui erano avvenuti agguati). Le sconfitte sono state
cocenti:
prima il Merkava, il migliore carro armato d’ Israele, distrutto da
un'esplosione, e tre uomini dell'equipaggio uccisi; poi la morte
accidentale
di un comandante molto famoso del gruppo Duvdevan, un'unità speciale
fra le
migliori dell'esercito; quindi l'uccisione di un soldato al
checkpoint a
Oriente di Ramallah, a Surda. Costui era di guardia da quattordici
ore, il
terrorista gli ha puntato una luce in faccia e gli ha semplicemente
sparato
allontandosi poi dopo aver preso il fucile del suo compagno. Da
agosto in
altre due operazioni sei soldati erano stati uccisi, sempre
nottetempo,
durante le ore di guardia sul confine di Gaza.
La riunione di gabinetto presieduta ieri da Sharon è stata molto
accesa, ma
nello stesso tempo disorientata: in realtà anche quelli che
ruggiscono, non
sanno bene dove stia andando Israele. La destra non sa poi che se ne
farebbe
di rioccupare le zone A, la sinistra se Arafat davvero sia un leader
con cui
si può sedersi a fare la pace. E anche se negli ultimi due giorni gli
attacchi dell'esercito all'Autonomia sono stati particolarmente duri
e
sanguinosi, gli ordini non sono stati cambiati. Si tratta delle
solite
incursioni contro gli edifici di Arafat, contro i simboli, contro le
organizzazioni che Israele ritiene responsabili degli attacchi, o
contro
leader prevalentemente di Hamas. Quanto più negli ultimi giorni gli
attacchi
continui dentro la Linea Verde e nei Territori, a soldati e a civili
(basta
ricordare il tentativo del terrorista suicida sull'autobus, sventato
martedì
dal coraggioso autista che l'ha buttato di sotto), hanno spinto a
risposte
dure, tanto più ci sono state tragiche perdite di civili palestinesi,
anche
donne e bambini. Ma non c'è in questo un cambiamento strategico. Non
si
scorge la decisione di rioccupare le città , o di attaccare i civili:
Sharon
già annuncia che « non trascinerà il Paese in guerra» e se la prende
con la
destra che lo vorrebbe spingere nelle zone A con presidi fissi, a
frugare
ogni casa, a sequestrare « tutte le armi» . Anche Shimon Peres dice
loro: « Ma
dove volete andare, pensate che sia una passeggiata? E dopo che
faremo?»
E tuttavia il Paese oltre a essere disperato (cosa che si presenta
senza
veli nella fenomenologia dei funerali così poco militari, in cui le
mamme
dei soldati si gettano urlando sulle tombe dei loro ragazzi, e gli
amici
richiesti dai giornalisti di dichiarazioni marziali sorridono
soprattutto al
ricordo della scuola e delle ragazze, anche se sempre nelle storie di
immigrazione dalla Russia e dall'Europa i genitori raccontano di
ragazzi
molto devoti alla difesa di Israele) è in un grande dilemma tecnico,
che si
incentra sul tema dei checkpoint, ma che ha significati più grandi: i
posti
di blocco sono « trappole di cemento» , si comincia a dire; anziché
punti da
cui è possibile controllare l'ingresso di terroristi, fanno dei
soldati
« anatre da richiamo» su cui agili e ben addestrati gruppi di
guerriglia che
hanno sostituito in parte i gruppi terroristi suicidi, come dice
l'esperto
militare Ron Ben Yshai, fanno incursioni veloci e per ora vittoriose.
Dice
Zeev Schiff, un altro venerabile esperto, che attaccare i soldati ai
checkpoint ovvero sul confine dei Territori rompe l'alleanza fra i
cittadini
israeliani dentro la Linea Verde e fuori: « Il dissenso di chi non
vuole
arruolarsi potrebbe aumentare perché sempre di più si muore solo
difendendo
gli insediamenti» .
Le proposte sono dunque: diminuire i posti di blocco e rendere più
mobili le
unità dell'esercito, ma la strategia di fondo resta misteriosa per
tutti,
anche per gli strateghi. Israele è il primo Paese democratico del
mondo che
si trovi a affrontare una quantità inverosimile di attacchi
terroristi, in
cui la vita è impedita in tutte le sue espressioni; ma il modo in cui
sono
concepiti il suo esercito, il suo rapporto con gli Usa e con
l'Europa, e
soprattutto l'immagine che essa ha di sé stessa non consentono troppe
scorciatoie, anche se a volte la reazione è molto dura. Così in
realtà la
discussione sui checkpoint non è tanto una discussione sui mezzi
strategici
da usare per vincere, ma piuttosto un dibattito che prende nota di un
ripiegamento. Fra l'America che gli chiede di pazientare perché ha
conti più
importanti con l'Iraq, e la tentazione di usare la forza
dell'esercito,
Sharon preferisce la prima ipotesi, e continua a lasciare
l'iniziativa dei
colloqui a Peres.