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DOPO DICIOTTO ANNI FUORI DALLA PALUDE Tutto cominciò con quattro madr i Perché il premier ha dato ascolto alla piazza

giovedì 25 maggio 2000 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME A Israele, in queste ore, viene da ridere e da piangere, sente caldo e freddo. Da una parte le famiglie dei soldati sono felici: « Mamma, abbiamo lasciato il Libano» titola il giornale più popolare, « Yediot Aharonot» ... E molti sentono la fierezza di chi mantiene le promesse. Comunque l’ abbia fatto, Heud Barak, e glielo dicono anche Shimon Peres e il presidente Weizman, ha saputo uscire dalla palude dopo 18 anni di occupazione della Fascia meridionale del Libano, nonostante tanti schiaffi presi da Hezbollah, siriani, libanesi. L’ aveva giurato il 7 luglio scorso, appena divenuto primo ministro: « Porterò a casa i ragazzi dal Libano, via da questa guerra inutile» . Via da una strana etica del dovere ormai intessuta tuttavia di vittimismo postmoderno, via dalla morte dei giovani sulle bellissime e desolate montagne a due passi da Sidone, via dalle battute spiritose che con la faccia dipinta di nero e con le frasche sull’ elmetto ci si possono scambiare a 18 anni su una strada notturna, in ronda, verso i veri agguati mortali degli Hezbollah. Via dalla guerra che la cultura occidentale considera comunque come uno sgarro al buonsenso stesso. Ma d’ altra parte a Israele viene anche da piangere perché quell’ ultimo soldato che letteralmente chiudendo la porta dietro di sé è rientrato in Israele alle 6,40 di ieri mattina, di fatto aveva tutta l’ aria di uno che scappa. E l’ opposizione, soprattutto Ariel Sharon, che poi non ha tanti numeri per parlare del Libano ma che in queste ore tuttavia tempesta di critiche Barak, gli dice: « Hai destabilizzato la situazione di tutto il Medio Oriente con questa uscita prematura, hai accelerato i tempi in modo inconsulto senza assicurare ai cittadini del Nord la protezione necessaria; hai messo di fatto in moto una macchina che finirà col ricatto siriano, o mi dai quello che voglio io o ti scateno contro gli Hezbollah che ormai possono spararti fin dentro la camera da letto o nella scuola di tuo figlio» . In Medio Oriente quando volti la schiena inviti alle pugnalate, e anche allo scherno. E le immagini televisive della coerenza pacifista di fatto sono quelle delle file dei miliziani dell’ Els (Esercito del Libano del Sud) in fuga verso Israele; mostrano gli Hezbollah in festa che sconcertano l’ esercito israeliano occupando la fascia di sicurezza in abiti civili, fra la gente che li applaude, e mettendo così i soldati di Tzaahl in condizioni proibitive rispetto all’ uso delle armi. Perché Barak ha sgomberato così in fretta, si chiedono tutti? Perché , ed è questa l’ imbarazzante risposta quando si pensa che si tratta di un eroe nazionale che è stato un ottimo capo di stato maggiore e che senza un’ uscita concordata con la Siria, Barak ha contato sulle decisioni dell’ Onu senza tener conto delle sue desolanti lungaggini burocratici, ha puntato sulla capacità dell’ Els di resistere almeno un paio di giorni e non neppure un minuto con tante armi in mano che gli aveva lasciato di fronte all’ attacco immediato degli Hezbollah; ha pensato che i libanesi non avrebbero voluto farsi ancora una volta strappare di mano la sovranità nazionale, stavolta dagli Hezbollah, nella zona fino a ieri occupata dagli israeliani e avrebbero mandato le milizie. Ha sbagliato. E soprattutto, e questo è il punto principale, sin dal giorno in cui è stato eletto Barak aveva nella testa, anzi, nelle viscere, l’ idea che la forza della pace avrebbe comunque costretto tutti a far la pace: costretto il Libano a figurarsi un futuro di buon vicinato; la Siria a esporre la nudità di unico occupante rimasto; gli Hezbollah ad ammettere che ormai non c’ era più ragione di combattere Israele. Barak, poi, soprattutto, essendo il primo ministro di un Paese democratico, era stato travolto dalla forza del Movimento delle Quattro Madri, quattro leader di cui una ha perduto suo figlio in Libano, seguite da tutte le altre mamme orbate, e da quelle che comunque chiedevano a gran voce che i loro ragazzi smettessero di pagare con la vita la stupidità di un’ occupazione che non portava a Israele né un uomo né un soldo, e che le inimicava ancora di più tutto il mondo arabo. Dal 1985, anno in cui la fascia di sicurezza si era come autocostituita nello strano rapporto fra Israele e gli uomini delle milizie cristiane e filoisraeliane, Israele ha perso novecento giovani che non avevano nessuna voglia di fare la guerra, che, insieme alle loro famiglie, sentivano solo oramai il desiderio di appartenere in toto a un mondo di valori moderni e di soddisfazioni materiali legati alla vita d’ oggi, e con questo universo la gloria militare ha ben poco a che fare. Barak ha probabilmente risposto con la sua fretta soprattutto a questa spinta basilare, ormai radicata nella psiche israeliana e quindi anche nella sua, per cui la guerra è una pura sciocchezza, una gran perdita di tempo. Da questo e da una serie di spinte contingenti ha ricavato l’ idea che prima si faceva e meglio era. Ma gli Hezbollah, e in definitiva tutto il mondo arabo, hanno interpretato l’ ansia di pace come un’ affannosa fuga. E questo spinge invece che alla pace verso nuovi pericoli.

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