Domani Israele vota per il parlamento e il premier. Favorito il candi dato laborista "Mio figlio batterà Netanyahu" Nel kibbutz dove è cresciuto Ehud Barak
domenica 16 maggio 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
MISHMAR HASHARON
Una donna ormai piccola per gli anni, i capelli bianchi lisci sul
capo, molto allegra e con una faccia stranamente nota, mi sorride.
Dice piano: "Io sono la mamma, Esther Brog, la mamma di Ehud". Ehud
Brog? "Ehud Barak, ma il vero nome polacco, quello mio e di mio
marito Israel, è questo: Brog". Esther non fa mostra di
sentimentalismo, anche se la sfida fatale delle elezioni nelle
quali il figlio è favorito, specialmente adesso che il leader del
partito arabo Azmi Bishara ha lasciato la tenzone, avrà luogo
questo lunedì . A Mishmar Hasharon, il kibbutz che i Barak, nel
1933 contribuirono a fondare con un gruppo scelto di pionieri russi
e polacchi, si ostenta flemma intellettual-contadina, ruvidezza
militar-israeliana; nessuno squittisce all'idea che il cucciolo
della comunità sarà forse il primo figlio di kibbutz che diventa
premier.
Chi aveva detto che i kibbutz sono finiti? Che sono in crisi? È
come se un vecchio albero d'improvviso desse il bel frutto maturo
che sempre aveva promesso. È il tronco della elite ashkenazita,
cui Bibi Netanyahu rivolge incessanti accuse di snobismo, razzismo
antireligioso e antisefardita: ma aggirandosi per il kibbutz sulle
tracce del bambino nato nel 1942 in una baracca, fra questi alberi
viola di bouganvillea, chi potrebbe sottrarsi all'invidia?
Il kibbutz è un quadrato non tanto grande, proprio nel cuore di
Israele, nell'Emek Chefer, una zona verde fra Natania Tel Aviv e
Haifa, in una zona che i pionieri prosciugarono dalla palude e
dalla malaria. Nella piccola comunità di Mishmar Hasharon ci si
ammalava e si moriva di questa malattia, lavorando con le braccia e
le gambe nell'acqua. Così , vicino, morì anche la mamma di Rabin.
Il kibbutz è ancora un insieme di casupole appoggiate su terra
battuta, nella sala da pranzo si mangiano formaggi bianchi,
cetrioli e pomodori.
I Barak vivono in una casuccia sistemata a schiera con altri tre
appartamenti identici: un salottino con un divano letto e un tavolo
per mangiare, scaffali con libri di storia, filosofia, letteratura
e qualche testo di teoria matematica, una cameretta da letto, una
cucina fatta solo per scaldare il cibo comunitario, e semmai per
preparare la torta del sabato, una doccia e il gabinetto. Da questa
casa, Esther e Israel sono usciti ogni mattina per cinquant'anni,
lei a svolgere il suo lavoro di nurse di bambini appena nati, lui
di elettricista del kibbutz: un elettricista che tutti considerano
un grande intellettuale.
Ehud però non ha mai abitato in quella casa: fino a pochi anni fa
i bambini come lui abitavano, appunto, nelle "case dei bambini" fin
dalla nascita. "Dormivamo tutti insieme con un genitore nel
corridoio che faceva il turno: ma i genitori erano così stanchi
che non sentivano mai i nostri pianti - racconta Nili Bucks, che
dormiva con Ehud -. Una volta, dopo richiami disperati io e
un'altra bambina di 4 anni uscimmo dalla baracca e trovammo al buio
la mia casa. Mio padre mi baciò , mi consolò , e poi mi riportò
alla casa dei bambini".
Ehud era un bimbo speciale, anche se Ester continua a minimizzare:
"I miei quattro figli sono tutti bravi. Ehud, a scuola, non era
chissà che. Anche se certo aveva un tocco particolare per la
matematica e la fisica. Era sempre il più piccolo della classe. Se
non avesse intrapreso la carriera militare, certo sarebbe diventato
uno scienziato".
Quando Ester portò a casa Ehud appena nato, il bimbo aveva un
gran testone. Le donne che si riunirono per fargli festa, rimasero
un po' perplesse. E con terribile schiettezza, una di loro disse a
Ester: "Tuo figlio è un po' strano. O è un idiota, oppure
diverrà un grande uomo". Racconta Batia, anche lei dalle sue
memorie infantili, che il bambino Ehud era mingherlino e che da
piccolo, anche se spesso si astraeva nell'osservazione delle
formiche o nello studio del pianoforte, mostrava un'enorme volontà
di plasmare il fisico per diventare forte, grande e muscoloso. Nili
ricorda che durante una gita scolastica in Galilea, sentiva con
grande scorno femminista di non farcela più nella salita; ed ecco
che quella pulce di Ehud le toglie lo zaino dalle spalle: "Me lo
portò per il resto del viaggio, e sono certa che lo fece per
generosità , ma anche per allenare il fisico".
Mishmar Hasharon ha soltanto 200 haverim, compagni-membri. È nato
per essere piccolo, povero, colto. I suoi membri non sono come
quelli di una volta, perché tengono i bambini in casa e lavorano
in parte fuori dal kibbutz e se prendono dalla sala da pranzo cibo
per qualche ospite, lo pagano. Ma se lavorano fuori, versano per
intero lo stipendio al kibbutz; e se vogliono la macchina, c'è
solo quella del kibbutz da prenotare. Ognuno, ricordate?, dà
secondo le sue possibilità e prende secondo i suoi bisogni.
Il quadrangolo della vita di Mishmar Hasharon, casa, sala da
pranzo, campi da gioco, campi agricoli dove si coltiva l'orto
oppure gli avocado o i mango, e la piscina sociale, e le vasche per
i pesci, e il piccolissimo zoo per i bambini e le scuole, sono
insieme un paradiso e un reclusorio. I soldi sono molto diminuiti
da quando è bruciata due anni fa la panetteria che era l'orgoglio
del kibbutz, la meraviglia che la mattina, racconta Yshai che
dirige le vasche dei pesci, riempiva di profumo tutta l'aria, e
dava a ogni ora il pane caldo. Ora non c'è più : al kibbutz manca
una grande entrata economica. La sua scabra perfezione è
screpolata dalla povertà .
Un tempo a riempire la pancia bastavano le infinite discussioni
ideologiche; alla festa del Primo Maggio, sulla torre dell'acqua,
si issava prima della bandiera israeliana la bandiera rossa; ci si
divertiva soltanto con le danze folcloristiche israeliane, con la
hora sionista, mezzo russa e mezzo araba e si cantava, si
cantava... Raccontano che a Mishmar Hasharon un kibbutznik, per
cercare di rendere la vita più bella a un compagno, dovendolo
svegliare alle 4, lo svegliò alle 3 per dirgli: "Hai ancora
un'ora da dormire".
"Mio figlio mi somiglia molto, non è vero?". Ester alla fine non
resiste. "Lo dicono tutti. Da quando a 18 anni è andato
nell'esercito e poi via via è divenuto capo di stato maggiore e
ancora adesso non passa giorno senza parlarmi, non passa fine
settimana senza venire". "Quando incontra uno di noi - racconta
Tzipi, una delle responsabili dell'economia - anche nei momenti
più difficili e più densi, vuole che gli si racconti tutto di
Aron, o di Miriam, o di Osnat... Un kibbutz è di più , di
più ...". Sembra che un kibbutz sia un'idea con dentro qualcosa che
ancora vince.