DIVERSO PARERE MA L’ IRAQ NON VA LASCIATO
lunedì 29 maggio 2006 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
NON è né bello né giusto abbandonare l’ Iraq adesso, e anzi è sbagliato. Il
ministro Massimo D’ Alema può usare, come fa, un tono pacato nel descrivere
la scelta come graduale e nell’ annunciare il suo prossimo amichevole
dibattito con gli americani: si tratta pur sempre di una decisione che,
presa così in fretta, risulta estremista e in controtendenza, specie oggi.
Ci sono dei problemi di opportunità nei rapporti interatlantici; dei
problemi legati alla fase storica in cui la guerra in Iraq si trova; e
infine, ma primi in ordine di importanza, dei problemi morali.
Problemi di opportunità : Bush, per quanto sia un’ anatra azzoppata
dall’ opinione pubblica, rappresenta appieno gli Usa rispetto a cui l’ Europa
rischia la rottura interatlantica, quella della sfida all’ attacco terrorista
e dell’ uso della forza in casi estremi. Proprio perché i due pilastri della
coalizione riconoscono gli errori compiuti, acquista più forza la loro
scelta di restare quanto si deve e si può come obbligo fondante: è una
dichiarazione di fiducia nel futuro dell’ Iraq, e soprattutto una ragionevole
analisi dello stato del mondo, rispetto alla quale faremmo meglio a
compiere, noi europei, una riflessione meno subalterna all’ antagonismo,
all’ orgoglio, alla propria « costituency» . In tempi di Ahmadinejad, di Hamas,
del revival di Al Qaeda e degli hezbollah, è dubbio se sia sensato che
l’ Italia aumenti la distanze fra le rive dell’ Atlantico.
Conviene che l’ Italia si faccia caposcuola dello scisma nel mondo
occidentale? O ci si deve invece preoccupare per la minaccia terrorista,
l’ odio, le armi di distruzione di massa degli estremisti islamici? E ancora,
vuole il governo rispondere in modo più ponderato alla domanda se usare
talora la forza sia giusto? Andarsene senza neppure salvaguardare di fatto
una missione civile che resti a aiutare gli iracheni (dato che occorrono
diversi armati per ogni civile impegnato sul campo) è un voto contro il
crescente buon senso anche europeo dopo Madrid e Ahmadinejad. L’ asse
islamista è forte e unito come non mai, ha piani seri, non combatterlo può
costare la vita.
In secondo luogo, il momento è il meno indicato: il nuovo primo ministro
Nouri al Maliki ha messo insieme un gruppo di figure competenti e serie, ma
per dare spazio a un gioco democratico e calmo fra i gruppi etnici e
religiosi, deve soprattutto mantenere l’ ordine pubblico. Maliki perciò si è
tenuto la Difesa e gli Interni; il trend è positivo con una quarantina di
attacchi al giorno rispettto ai 150 di pochi mesi fa, ma ci vuole tempo e
forza per migliorare ancora, e gli Usa hanno segnalato che restare accanto a
Maliki adesso serve proprio per ristabilire l’ ordine a garanzia del nuovo
trend positivo non lo si sa. Bernard Lewis ha detto che per l’ Iraq vige la
formula « good news no news» , i media e i politici usano toni da giudizio
universale.
Invece, potremmo permetterci uno o due sorrisi. Pilastro dell’ ottimismo è
l’ ayatollah Sistani che si pone come un baluardo contro gli sciiti iraniani;
il suo impegno, insieme a quello di moltissimi moderati di tutti gruppi, fa
intravedere un futuro di democrazia difficile, con risvolti religiosi, ma
dove sarà possibile trovare un accordo fra le parti e in cui le differenze
fra gruppi religiosi ed etnie potrebbero essere gestite in maniera
democratica. I segnali vengono numerosi dal Brooking Iraq Index che ci
segnala il fiorire di 44 stazioni tv, 72 radio, 100 giornali, dai liberali
agli islamisti ai comunisti. Il reddito pro capite è del 30 per cento più
alto di prima della guerra, ed è duplicato dal 2003. Nel 2004 il 6 per cento
degli iracheni aveva un telefonino, ora si tratta del 62 per cento, il 70
per cento dei cittadini ritiene la propria condizione economica positiva, il
58 per cento delle famiglie ha l’ aria condizionata. Più di 6 su 10 iraniani
si sentono molto sicuri nel loro quartiere, mentre nel 2004, solo 4 su 10.
Dalle elezioni del 30 gennaio 2005 neppure un’ unità militare è stata
sconfitta in battaglia e il reclutamento continua ad andare forte nonostante
gli attacchi alle reclute. I gruppi di insorti e terroristi iraniani, in
parte locali, in parte importati dall’ Iran, non sono,(come ha scritto Max
Boots, specialista americano di sicurezza), vietcong o mujaheddin, non
possono organizzare un assalto su larga scala né dispongono di un leader
come Ahmed Shah Massoud o Ho Chi Min: hanno al massimo il giordano Zarqawi,
disprezzato da molti iracheni. Se si pensa che nei primi quattro anni
dell’ Intifada Israele ha subito 21 mila tentativi di attacco terrorista, si
capisce che una democrazia può fiorire anche in condizioni di difficoltà .
E dunque perché vogliamo andarcene proprio ora che le cose sembrano
migliorare? Che si configura una crescita civile ed economica? Che gli
iracheni si sono guadagnati la stima di tutti col loro eroico comportamento
al voto? Che comunque lo si voglia giudicare, hanno indotto un terremoto di
pensiero democratico dal Qatar all’ Arabia Saudita? Forse dubitiamo che le
fughe eccitino e armino, e non calmino, l’ integralismo islamico?
Il ventesimo secolo vide le nostre micidiali convulsioni per raggiungere la
democrazia; nel ventunesimo, dopo pochi anni, sorridiamo saccenti sulla
capacità dell’ Islam di farcela, e non vogliamo combattere i terroristi che
odiano gli occidentali, ma soprattutto i democratici musulmani. Occorre
pazienza, occorre coraggio. La pazienza e il coraggio però non sembrano le
virtù politiche di moda oggi in Italia.