DIRITTO AL PROCESSO
domenica 8 maggio 1994 La Stampa 0 commenti
È pacifico ed evidente che Erich Priebke debba essere estradato e
processato in Italia. Ed è bene che si sia già attivato il
meccanismo che lo può consentire. Può essere faticoso e anche
straziante giudicare quello che è ormai un uomo di ottant’anni;
frugare nella mente e nella storia di colui che curò personalmente
l’eccidio di 335 italiani ordinato da Herbert Kappler, che scelse
personalmente i nomi dei detenuti, degli ebrei italiani, dei tre
ragazzini dai 14 ai 17 anni che finirono nelle maglie della
rappresaglia tedesca. Ma sarebbe semplicemente folle - e lo sarebbe
specie in questo momento della nostra storia - non affidare a un
tribunale italiano il giudizio su un uomo che, comunque si giudichi
l’attentato di via Rasella, è stato interprete ai danni di noi
italiani di quella ferocia passiva e subalterna che anche Eichmann
tante volte rivendicò durante il suo processo:
l’autorità né la responsabilità di dare ordini, ma solo quella di
ubbidirvi. È questa una frase che fu udita ripetutamente dalle
labbra di uno dei principali responsabili dell’eccidio di sei milioni
di ebrei, e che fu anche il leitmotiv del processo di Norimberga. Fa
specie che proprio oggi la signora Edda Ciano, anche lei vittima di
una storia in cui anche gli ordini più disumani sono ordini, si
opponga a quella che è stata forse l’unica lezione appresa dalla
storia contemporanea, quella dell’abissale fallibilità delle
gerarchie. E suona cupo il richiamo di Priebke stesso al pilota che
sganciò la bomba su Hiroshima, e a quanto sia brutta la guerra vista
dall’una e dall’altra parte, allo stesso modo: ogni vicenda della
storia, dobbiamo sempre ricordarlo, ha un suo specifico valore. È
proibito esaltare il buio dell’oblio che tutto confonde, specie per
assolvere la propria storia politica e personale. Non è soltanto
perché bruciano le immagini dei cadaveri sfigurati delle Fosse
Ardeatine, o del pianto delle famiglie che corrono sugli schermi tv,
o perché disgusta il suo cappello da montanaro sportivo, il volto
abbronzato e il tono autoassolutorio di Priebke che è giusto pensare
di dover procedere al suo processo in Italia. Il nostro Paese è
stato sempre poco propenso ai meccanismi formali, poco fiducioso
nella giustizia dei tribunali, e molto più fiducioso nelle forze
della politica e dell’ideologia. I crimini di guerra italiani, di cui
molti si compirono nei Paesi ex coloniali, molti in Jugoslavia, altri
contro gli ebrei nelle gentili città dello Stivale, sono stati
risucchiati nella ragion di Stato, nella divisione del mondo che fu
compiuta a Yalta che ormai assegnava l’Italia alla parte occidentale,
e la consegnava a una democrazia cristiana senz’altro abilitata
all’antifascismo. Gli uomini della recente storia italiana non furono
dunque processati personalmente dalle leggi, non dai giudici, e in
fondo neppure dalla storia. I nomi dei nostri criminali fascisti di
guerra sono evaporati negli archivi americani, occultati da noi come
dagli Alleati, mentre tutta la fiducia nell’elaborazione e nel
superamento del passato veniva affidata all’empito popolare
antifascista, alla Costituzione, alla democrazia. I giudici non sono
mai stati interpellati: è così che è sempre rimasta aperta,
galleggiante nell’aria, l’idea che il fascismo fosse un regime in
fondo bonario, in fondo persino quasi filosemita. E quando Gianfranco
Fini è andato in pellegrinaggio alle Fosse Ardeatine, in realtà il
suo è stato un gesto di esecrazione non tanto nei confronti della
propria stessa radice autoritaria antisemita, quanto della perfidia
della , su cui è del tutto innocuo al giorno d’oggi,
anche rispetto all’odierna base della destra italiana, far cadere
rimproveri, e accuse. In questo periodo di discussione sulla
pacificazione nazionale, in cui ad un tratto si scopre che tale
pacificazione non è mai avvenuta, e che la forza dell’antifascismo
di stampo classico è stata puramente ipotetica, non c’è modo più
pulito e più serio per lo Stato italiano di quello che un processo
può proporre. La storia di Priebke sottolinea ciò che vi fu di
atroce nel regime, nei metodi, nell’etica nazista, ma anche in quel
regime fascista che ne fu alleato e che consentì senza colpo ferire
che fossero raccolte le vittime per l’eccidio nelle sue carceri,
nelle sue strade, fra gli ebrei d’Italia, fra i ragazzini. In niente
viene modificato il dovere dello Stato italiano di processare Priebke
dalla vecchia polemica sull’attentato di via Rasella. E appare
improprio e crudele nei confronti della memoria delle vittime
sollevarla qui. In che cambierebbe la responsabilità di Priebke, in
che muterebbe la memoria se pure si arrivasse alla definitiva
conclusione che i partigiani che scelsero l’attentato di via Rasella
perseguirono una politica avventata o addirittura sbagliata? L’unico
dovere che il nostro Paese ha dal momento in cui Priebke è stato
scovato sulle Ande argentine è quello stesso che fu proclamato dallo
Stato d’Israele quando processò , fra molte polemiche, Adolph
Eichmann: Ben Gurion spiegò ad Adenauer che Israele aveva il dovere
di processare il capo nazista poiché il nuovo Stato era l’erede dei
sei milioni che erano stati sterminati, il suo unico erede. E
l’Italia, senza dubbio, è l’unico erede di quegli innocenti che
furono trascinati alle Fosse Ardeatine. Lo è oggi come lo era ieri,
e guai se quest’Italia che vuole volare verso il nuovo e l’inedito
non capirà che la vera pacificazione, quella profonda e duratura,
viene soltanto dalla memoria; che tentare l’oblio crea solo vuoto e
ingiustizia e risuscita fantasmi. Riconciliazione e pace, per quello
che l’umana natura può consentire, nascono solo dalla coscienza. E
del resto il recente risultato del processo a Demjanjuk, creduto il
boia di Treblinka e poi andato assolto, dimostra che dei giudici ci
si può fidare più che dell’ideologia, più che degli inviti
velleitari a scordare il passato, che danno solo la misura di quanto
invece esso possa essere una coda di paglia pronta sempre a prendere
fuoco. Fiamma Nirenstein