DIFFICILE RICONOSCERE NELL’ ASSALTO I SEGNI DI UN FUTURO MIGLIORE PER LA PACE Una saga dell’ odio più che della gioia
martedì 13 settembre 2005 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
Prima che il sole sorga sulle dune di Gaza, i carri armati escono in una
rumorosa, monotona teoria. L'aria è calda e umida. Affacciati dal loro tank
due soldati tengono la bandiera del loro Paese in mano, senza enfasi, senza
gioia ma come ha detto ieri il Capo di Stato Maggiore ammainando le insegne
israeliane da Gaza, « a testa alta» . Ormai da anni la pace ha assunto il
volto dell'araba fenice. E' ancora buio quando l'ultimo ufficiale
israeliano, Avi Kochavi, chiude il cancello. Dice, come il comandante di
tutta l'area del Sud, che questo è un momento di speranza « per noi e i
nostri vicini» .
Nel buio ancora fondo era cominciata la saga della gioia e dell'odio
palestinese: a niente servono gli 8500 uomini armati dispiegati lungo il
confine, la folla di migliaia di ragazzini e i camion strapieni di gente col
mitra imbracciato si precipita nella parte ex-ebraica della Striscia, e
certo non è facile riconoscere i segni di un futuro migliore per la pace in
quello che accade di lì a poco: le sinagoghe di Kfar Darom, Netzarim e Nevet
Dkalim sono le prime a venire assalite dalla folla come un corpo vivo. Non è
solo il fuoco, sono le picconate, il lancio di pietre e anche la decisione
del leader di Hamas Mahmoud Zahar di pregare (secondo l'antico uso musulmano
di conquista) proprio nelle rovine del tempio a forma di Stella di David di
Nevè Dkalim, sono le espressioni di trionfo che danno da pensare: tutto
quello che la gente dice riflette le indagini per cui il 90 per cento dei
palestinesi pensa che l'uscita di Israele da Gaza sia il frutto dell'attacco
terrorista portato a Israele dal settembre 2000, e non certo una mano tesa.
Poco lontano, a Alei Sinai, col sole alto, Mahmoud Abbas promana un
messaggio diverso quando pianta la bandiera palestinese sulle sabbie di
fronte al mare: ristabiliremo l'ordine, comincia un periodo nuovo,
l'Autonomia palestinese garantirà benessere e tranquillità . Ma per
compiacere il pubblico sia Abu Mazen sia i suoi, come Jibril Rajub, ripetono
nelle orecchie di Hamas la promessa di non disarmarli; e per galvanizzare la
popolazione Abu Mazen ripete che quello di Gaza e solo un passo, il prossimo
è Gerusalemme. E se da una parte esalta il coraggio di Sharon, dall'altra ne
sminuisce il gesto dichiarando che Gaza può diventare semplicemente una
cella più grande.
Insomma, già da ieri due sono le letture dello sgombero: da una parte, i
palestinesi lo leggono come vittoria militare e seguitano a proporre l'idea
che anche dentro Gaza continui l'oppressione israeliana. E tuttavia il
messaggio politico dei fatti è anche la scelta, persino da parte di Hamas,
di aver fatto uscire l’ esercito israeliano tranquillamente, e non sotto il
fuoco: anche Hamas sa che la reazione sarebbe stata durissima e non vuole
venire accusato di aver lasciato inutili « martiri» sul terreno. Dall'altra
la lettura israeliana: come si è sentito ieri dire del ministro della difesa
Shaul Mofaz sul bordo di Gaza, i palestinesi hanno ora in mano un patrimonio
prezioso: esso consiste non solo nel territorio di Gaza, ma anche nella
possibilità di costruirsi, affrontando i gruppi terroristi, una credibilità
che riconduca alla road map. E se l'Autorità Palestinese si sottrarrà alle
sue responsabilità , allora ci sarà una più dura e « nuova» reazione
israeliana, dice Mofaz.
Ma mentre le ceneri delle sinagoghe ancora sono calde, insopportabili a
tutti gli uomini di buona volontà e condannate dal sempre mite Presidente
della Repubblica Moshe Katzav, una parola di speranza viene da Shimon Peres
da Kiriat Shmone, al Nord: « Qui quando siamo usciti dal Libano la gente
temeva di essere bombardata ogni giorno: invece la vita si è fatta molto più
quieta. I palestinesi riusciranno a controllare la situazione» .