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DIETRO LE QUINTE DELLA MEDIAZIONE USA Gli insediamenti dei coloni la domanda senza risposta

mercoledì 23 maggio 2001 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME BASSO profilo, stile « nuovo Sharon» , quello della conferenza stampa di ieri. Riflettori tutti puntati sul tema della violenza, e invece, d'altra parte luci basse, anche se non spente, sulla grande domanda: Israele, è pronta a smantellare gli insediamenti? A congelarli immediatamente, a fronte di un nemico che non smette di sparare, no; discuterli al tavolo delle trattative quando il fuoco tacerà , va bene, « così da non creare ai nostri vicini la preoccupazioni di piani espansivi» . Beni Ellon, uno dei più importanti capi politici dei coloni, ha subito protestato, ha scosso violentemente la testa e ha chiesto che si lavori a far cessare il terrorismo: per lui il nesso insediamenti-violenza è del tutto pretestuoso. Gli insediamenti se ne andranno, e la violenza continuerà , dice. Ma il capo dell'opposizione Yossi Sarid ha subito attaccato dall'altra parte: gli insediamenti sono il vero pomo della discordia, dobbiamo prendere decisioni coraggiose, e Sharon sa che limitarsi a invocare la cessazione della violenza, non servirà a niente. L'opinione pubblica israeliana è divisa, soprattutto da quando, in questi otto mesi di agguati, spari, bombe e colpi di mortaio, i coloni , con i loro terribili lutti fra cui la lapidazione dei due ragazzini di Tekoa e l'assassinio di Shalhevet Pas, la bambina di tre mesi di Hevron, sono al centro dell'attenzione e della solidarietà di un cerchio molto più largo dei loro tradizionali amici. A chi in questi mesi diceva ai coloni che avrebbero dovuto andarsene da luoghi in cui è in pericolo la vita dei bambini, hanno risposto: e i vostri bambini, forse, a Tel Aviv o a Gerusalemme come a Natanya, non sono altrettanto in pericolo? Gli attentati terroristici, non mettono voi di Natanya, di Gerusalemme o di Tel Aviv nella stessa condizione di un cittadino di Ofra o di Netzarim? In una parola, negli ultimi mesi buona parte di Israele, spaventata e delusa dall'odio palestinese, si è abituata a considerare gli insediamenti come il fronte più esposto di una guerra in corso dappertutto; tuttavia, alla domanda se sarebbero pronti a cedere gli insediamenti, secondo una recentissima indagine statistica, sono più del sessanta per cento gli israeliani pronti a farlo. C’ è una verità che anche il governo Sharon sa benissimo: anche se Arafat accetta il cessate il fuoco e riesce a mantenerlo (per farlo dovrebbe rimettere in prigione centinaia di uomini di hamas che ha liberato, e imporre una frenata drastica a Tanzim e al Fatah), gli insediamenti sono in buona parte, salvo casi specifici, destinati a essere rimossi. Barak lo aveva già offerto ad Arafat, proponendogli il 97 per cento dei territori; i primi destinati a sparire, nel piano fallito del governo di sinistra, erano gli insediamenti di Gaza, che se si tornasse a trattare, sarebbero realisticamente i primi della lista. Sharon ha però un debole sentimentale per l'atteggiamento patriottico e temerario dei coloni, e un debito elettorale; e tuttavia, è meno condizionato, paradossalmente, del governo precedente, perché il governo di coalizione gli consente più spazio di manovra, e il « Mafdal» , il partito nazionalista religioso non è nella coalizione. Fra Peres e Sharon l'accordo per formare il governo di coalizione comprende l'impegno a non creare nuovi insediamenti e anche un tacito accordo, senza il quale Peres non avrebbe accettato di diventare ministro degli Esteri, di riprendere il discorso sul congelamento e sullo smantellamento prima possibile. Tutto questo, sempre che la violenza si plachi. Israele sa in ogni modo che la presenza dei coloni nella vicinanza di città che ormai sono in mano dal ‘ 93 ai palestinesi, è una continua sfida per un Paese democratico a rispettare i diritti umani e civili. Di fatto, la protezione degli insediamenti obbliga i palestinesi a passare ore e ore ai posti di blocco, a controlli umilianti, alla limitazione nei movimenti e quindi in generale nel lavoro e nella vita civile. Israele insiste che sono misure legate al dilagare del terrore, ma si capisce bene che se da una parte l'insediamento ha un significato di sicurezza, dall'altro è portatore di continue anomalie, di una vita stravolta per tutte e due le parti. La coscienza di questa anomalia spacca e fa soffrire la società israeliana, che tuttavia ora è certamente troppo ferita e sospettosa perché si possa immaginare che lasci cadere l'ultima carta che gli resta in mano per chiedere la cessazione delle violenze. D'altra parte, è difficile dire se i palestinesi hanno veramente intenzione di riprendere una trattativa, laddove la migliore di tutte le trattative possibili non ha funzionato. Da questa decisione strategica dipende il futuro della zona, e in parte del mondo intero.

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