DIETRO LA SCELTA AUTOLESIONISTICA SENTIMENTI AMBIGUI E VECCHIE RUGG INI L’ umiliazione di un Nobel Peres travolto dalla volontà di vendetta
martedì 1 agosto 2000 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
IL volto di Shimon Peres dopo la prima votazione che lo ha messo in
minoranza non sarà mai più dimenticato, come il volto di Golda Meyer
dopo
l'attacco della Guerra del Kippur, come l'annuncio di guerra di Ben
Gurion
dopo la proclamazione dello Stato Ebraico nel 1948. Perché la sua
sconfitta
è una sconfitta della Storia d'Israele. E forse si vergogneranno i
deputati
del Likud e dei partiti religiosi di quel grido primordiale di
vittoria che
è uscito loro dal petto quando il vecchio leader Premio Nobel per la
Pace è
stato battuto al secondo round. La vergogna si prova quando si
tradisce se
stessi, e stavolta si scorge nell'abbattimento del premio Nobel per
la Pace,
pupillo di Ben Gurion, inventore dell'aeronautica militare
israeliana, della
bomba atomica e del processo di pace, qualcosa di decisamente
autolesionista. Peres già dopo il primo voto è divenuto bianco come
uno
straccio, il portamento nobile piegato, le lacrime in pelle,
adontato,
improvvisamente investito dal peso dei suoi 77 anni che invece la
mattina,
nel bell'abito blu da cerimonia d'investitura, erano miracolosamente
spariti; tradito forse da alcuni dei suoi stessi compagni di partito,
e
ingannato come un pivello dalla promessa di Shas, il partito dei
religiosi
sefarditi, di osservare una libertà di voto che invece si è
trasformata in
un voto usato come un'arma di vendetta per la frustrazione etnica e
religiosa cui Peres, l'umanista, lo scrittore è certamente estraneo.
Per Peres, che il mondo intero riconosce come il fratello gemello di
Rabin e
il geniale inventore di un atteggiamento completamente rinnovato
verso il
mondo arabo fino dagli anni 80 quando concluse il primo accordo
segreto con
re Hussein, la gara elettorale di ieri era molto più importante di
quanto
possa immaginare chi lo abbia sempre visto omaggiato e onorato in
ogni
circostanza internazionale, dal Premio Nobel al prato della Casa
Bianca.
Ma era il suo proprio Paese che Peres non aveva mai conquistato,
erano i
suoi laburisti che interrogò nel ‘ 96 quando chiese all'assemblea del
partito
dopo aver perso contro Netanyahu le elezioni maledette, funestate dal
terrorismo islamico che aveva ucciso duecentocinquanta ebrei in due
mesi:
« Io sono un perdente? Un looser, io che ho messo fine alla guerra del
Libano, io che ho liberato gli ostaggi di Entebbe, che ho battuto
un'impossibile inflazione e fatto un accordo col re del Marocco
quando ero
primo ministro nell'86, io che ho firmato l'accordo di Oslo? Sono,
io,
Shimon Peres un perdente?» E il suo partito gli ripose allora con un
coro di
« sì » , sonoro e impietoso, che suonò come la ratifica esplicita e
feroce di
un pensiero sempre sottinteso. Ha giocato l'invidia e il pregiudizio
verso
quest'uomo dagli occhi tristi e pensosi più di quanto si possa
permettere un
Paese decisionista, un intellettuale privo di un passato militare di
combattimento, un politico che si è seduto quasi in ogni ruolo
decisivo,
ministro di ogni cosa, primo ministro due volte, ma incompreso dai
suoi e
quindi, un looser. Per tre volte infatti il Partito gli ha negato la
leadership quando correva testa a testa contro Rabin, e poi contro
Barak.
Per due volte gli è stata avversa la fortuna nella competizione
elettorale,
contro Begin nel 77 e poi contro Netanyahu. Adesso Peres aveva il
diritto di
vincere, perché il Presidente della Repubblica deve essere giudicato
dalla
Storia e non dalla politica, non dovrebbe diventare la vittima di uno
schieramento di opposizione irritato perché Barak vuol dividere
Gerusalemme,
non da sentimenti ambigui e vecchie ruggini. Peres si era di nuovo
generosamente messo in giuoco, aveva alzato il telefono per chiamare
ogni
singolo deputato in suo aiuto. Voleva ricevere finalmente un
abbraccio dai
suoi, quel segno di riconoscimento della sua eccellenza che il mondo
intero
gli tributa, che gli arabi gli concedono, e che il suo Paese però ha
voluto
seguitare a negargli.