DIETRO L’ EPISODIO SEGNALI POLITICI E BURATTINAI Il primo attentato co ntro il partito della trattativa I duri di Fatah temono che questo governo ot tenga un’ eccessiva credibilità . Per questo si presentano come un’ alternativ a al dialogo
lunedì 15 novembre 2004 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
ABU Mazen ha avuto ieri la sua prima prova del fuoco con la tigre delle
fazioni palestinesi a Gaza. E’ rimasto freddo davanti agli spari, ha
dichiarato senza batter ciglio che non si trattava di un vero attacco, che
non si era neppure accorto degli spari. Mahmoud Dahlan gli ha fatto eco.
Invece la vicenda è evidentemente molto grave, esagerata, anzi, con tratti
di delirio e fanatismo, quando si attacca il leader proprio dentro la tenda
del lutto per Arafat. Quelle di Abu Mazen sono affermazioni evidentemente
dettate dall’ opportunità politica, dal desiderio di tentare di sedare con le
buone il dilagare di una lotta armata che potrebbe portare non solo al
tramonto di ogni speranza di pace ma anche a un autentico spappolamento di
quanto resta dell’ Autonomia palestinese dopo quattro anni di Intifada.
Le eventuali elezioni del 9 di gennaio, se le cose dovessero prendere questa
piega, diventerebbero un’ ulteriore occasione di scontro sul terreno, con
risultati tanto sanguinosi quanto imprevedibili. Non solo: a fronte di una
situazione troppo calda dentro Gaza, lo sgombero di Sharon potrebbe essere
rinviato. E, soprattutto, l’ unica leadership esistente, quella del duo Abu
Mazen-Abu Ala svanirebbe, lasciando il vuoto e lo sconcerto internazionale.
Quindi, è logico che Abu Mazen tenga un basso profilo su un evento che in
realtà è un indizio molto preoccupante di quello che potrebbe succedere nei
prossimi mesi, o peggio nei prossimi sessanta giorni prima delle elezioni.
Chi è il responsabile della sparatoria? Quello che si è visto finora è un
gruppo di una ventina di « bravi» che urlando « Abu Mazen e Dahlan sono servi
degli americani» e « Col sangue e con l’ anima ti riscatteremo, Arafat» si
sono messi a sparare contro il nuovo capo dell’ Olp, e numero uno nella
successione. Non erano membri di Hamas, che per ora, benché sia a Gaza la
più grossa forza di opposizione a Fatah, si tiene da parte nel corso di una
trattativa molto tesa e vivace: Hamas spera che il nuovo gruppo dirigente
gli conferisca una grossa fetta di potere istituzionale e una sorta di
salvacondotto, in cambio di un cessate il fuoco interno, per seguitare nella
lotta armata contro Israele.
Invece tutti gli indizi raccolti finora parlano delle Brigate di Al Aqsa, o
comunque di gruppi di Fatah che in questo momento si fregiano di questo
nome: si tratta degli stessi gruppi che a maggio e luglio si sono scontrati,
e soprattutto gli uomini del Fatah locale contro quelli di Mohammed Dahlan,
con continue sparatorie, rapimenti, assedi. La loro autodefinizione è sempre
stata quella di gruppi favorevoli alle riforme. In realtà si è trattato,
come si vede adesso dal fatto che i ruoli sono confusi e rovesciati, di
gruppi, sempre del Fatah, che si preparavano alla ritirata di Israele e
quindi alla suddivisione di potere nella Striscia. Arafat mandò suo cugino
Mussa Arafat a cercare di domare la rivolta; e il risultato fu tale che egli
dovette degradarlo, anche se lo ha lasciato sul posto.
Adesso la posta è molto più grande: il potere su tutta l’ Autonomia
Palestinese, a partire da Gaza. Come si sa, Dahlan è alleato (ne fu ministro
della Difesa) di Abu Mazen, e fu cacciato insieme a lui, quando Arafat
licenziò il suo antico collaboratore dal ruolo di Primo Ministro.
Quindi, le fazioni opposte a Dahlan temono che la fortissima candidatura di
Abu Mazen al ruolo di presidente stabilisca un decisivo blocco di potere
molto sgradito ad alcuni, dentro e fuori di Gaza. Questo è il primo punto,
che però non è disgiunto dal significato politico dell’ operazione: per ora,
attaccare Abu Mazen e cercare di minare la sua credibilità - mentre tutto il
consesso internazionale si muove per sostenerlo e Sharon mostra segni di
gradimento e perfino di apertura a una ripresa della Road Map - è un sicuro
segnale di scelta della linea dura.
Proprio ieri le Brigate di Al Aqsa, ancora in un giorno di lutto e ben
memori del fatto che esse fanno parte del Fatah, l’ organizzazione leader,
hanno esibito con una parata un nuovo tipo di missile che hanno chiamato
« missile Arafat» . Il tentativo è di incarnare agli occhi della popolazione
la vera anima di Arafat, la lotta armata e il terrorismo come mezzi
irrinunciabili per battere lo Stato d’ Israele. Abu Mazen è per loro l’ uomo
della trattativa, che tornerebbe al tavolo rinunciando alla lotta.
Naturalmente non si tratta di decisioni prese intorno a un tavolo, come
dimostra il fatto che uno dei capi riconosciuti delle Brigate di Al Aqsa,
anche lui per la linea dura, dice che la sua organizzazione non c’ entra
niente. Ed è pur vero che i gruppi di « cani sciolti» che per motivi fra la
politica, il potere e l’ interesse gareggiano in violenza, sono molti.
Infine: l’ allusione politica dell’ attentato, sia pure in modo indiretto, a
Marwan Barghuti, leader in prigione con cinque ergastoli, laico di Fatah,
fondatore dei « tanzim» e delle Brigate di Al Aqsa. La sua fama di capo
genuino, popolare, del tutto identificato con la lotta del popolo e lontano
dalla politica gli sta creando intorno un’ onda di entusiasmo accompagnata da
slogan anti Abu Mazen, che lo potrebbe portare a essere un candidato alle
elezioni.
Israele tace di fronte agli accadimenti di ieri, e aspetta molto preoccupata
gli sviluppi: la preoccupazione è che da una situazione di speranza si torni
di nuovo a una situazione di caos e di terrore.