DIETRO L’ ATTACCO ISRAELIANO NESSUN FUTURO CON ARAFAT
mercoledì 25 settembre 2002 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
E’ molto duro vedere tante rovine fumanti buttate giù dai bulldozer
di un
esercito: fa male. Il senso di ansia e di pena che ingenera è certo
uno dei
motivi della dura reazione antisraeliana degli Usa, molto attenti in
questo
momento alla ricerca del consenso per il prossimo eventuale attacco
all'Iraq. Anche se gli Usa sanno che tutti i tentativi militari,
arresti,
rastrellamenti, distruzioni volti a fermare il terrorismo sono
particolarmente impressionanti dal punto di vista mediatico, perché
colpiscono strutture della società civile: i terroristi sono civili,
civili
le loro infrastrutture, i loro nascondigli, i loro aiutanti, i loro
ausili
tecnici e logistici hanno un carattere spesso persino familiare e
affettivo.
Le ruspe e gli uomini che escono al buio con le mani in alto sono in
sé
impressionanti e dolorose, anche se a volte chi esce così ha causato
la
morte di dozzine di innocenti e anche se la casa conteneva magari una
fabbrica di Kassam 2. Ma qui, l'attacco al compound di Arafat, a
Muqata, ha
suscitato molte critiche anche di carattere politico: è un attacco
miope, è
stato detto, che di fatto ha risollevato il consenso nazionale e
internazionale intorno a un leader quasi finito. In realtà , si tratta
semmai
di un attacco presbite, nel senso che scruta un futuro lontano,
prendendo
più o meno lo stesso rischio che George Bush si accolla quando
dichiara che,
spodestando Saddam e dando il via a un processo di democratizzazione
del
Medio Oriente, si intraprende una strada nuova, destinata a battere
il
terrorismo.
Lo stesso avviene in questo caso: Arafat che ha portato i palestinesi
a una
guerra per cui l'Autonomia da terreno di speranza è oggi zona di
miseria e
disperazione, che non ha mai voluto combattere e nemmeno condannare a
fondo
il terrore, è considerato da Israele un ostacolo all'avvento di
qualsiasi
leadership pronta a trattare una soluzione del conflitto. In altre
parole,
Sharon, quando ha deciso di ridurre Arafat in poche stanze, ha
giocato la
carta della destituzione della sua autorità (non è molto importante
che oggi
manifestazioni di piazza lo sostengano, è l'effetto strategico che
conta)
contando sull'effetto simbolo: una chiara indicazione della sconfitta
di
Arafat al mondo arabo, secondo il governo israeliano, apre le porte a
una
rivoluzione interna destinata a riaprire la situazione mediorentale.
Con Arafat, giudicano oramai gli israeliani, nessun futuro è
possibile. La
maggior parte dei leader europei pensa la stessa cosa, e certo lo
pensa
l'amministrazione americana che da tempo chiede a gran voce una
riforma
dell'Autonomia. Per Israele conflitto e attuale assetto dell'Anp
vanno
insieme: Sharon e Peres non vedono più un tavolo di pace che
comprenda
Arafat. Questo non vuole affatto dire (al contrario, dato che il
« Peace
Index» attribuisce tuttora una vasta maggioranza ai sostenitori di
grandi
cessioni territoriali in cambio di pace) che altri tavoli non siano
possibili. Israele è una società occidentale che ha cercato,
indicando il
simbolo di Muqata crollata, una via di simbolismo orientale per
inseguire
ciò che adesso le appare una prospettiva possibile: indicare che
Arafat è
sconfitto e con lui il terrorismo. Per questo contestualmente attacca
Gaza,
roccaforte di Hamas.