Di nascosto oltre il confine, a piedi nel deserto: verso la città nab atea, sogno proibito d’una generazione Petra, la sfida mortale Da Israele r ischiando la vita per vederla
mercoledì 28 settembre 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV OLTRE le montagne ed il deserto/ la leggenda racconta che
c’è un posto/ da cui nessuno può tornare vivo/ Questo luogo si
chiama Roccia Rossa/ In tre s’incamminarono al tramonto/ Brillavano i
monti di Edom/ Un sogno antico, la mappa e una borraccia/ portarono
con sé alla Roccia Rossa. Questa canzone la cantava Arik Levy negli
Anni Cinquanta, finché un raro decreto di censura la tolse dalla
circolazione in Israele. La Roccia Rossa è Petra, la capitale
nabatea che fu la perla d’Oriente fino al 106 d. C., all’epoca della
conquista romana. La città appariva d’un tratto al viaggiatore come
un ricamo di sanguigna roccia desertica, quasi barocca, tutta torri,
scale, statue, archi e cupole scavate dentro la montagna. Una ventina
di chilometri dentro un wadi giordano, in un silenzio perfetto e
nascosti fra i cespugli, fra le capre e i beduini armati, e poi d’un
tratto sotto la luna piena ecco Petra davanti agli occhi assetati di
bellezza dei giovani israeliani che intrapresero negli Anni Cinquanta
un’avventura che fu per molti estrema: dodici ragazzi fra i 19 e i 25
anni vi lasciarono la vita, uccisi, fra il ‘53 e il ‘57. Chi andava,
sapeva quasi per certo che non sarebbe tornato. La canzone di Arik
Levy fu messa al bando, ma ancora nel 1962 era una delle prime cinque
canzoni popolari in Israele. Nei giorni scorsi è venuto alla ribalta
della cronaca un certo Hanaanel Shar Yshuv, che quattro anni fa fu
restituito dai giordani, vivo, dopo il suo viaggio clandestino a
Petra. Forse fino a oggi di notte i giovani seguitano a sgusciare fra
i serpenti fino alla capitale dei nabatei. Ma da quando Hussein di
Giordania e Rabin si sono abbracciati, Petra è a portata di mano:
ora si aspetta solo il trattato di pace che aprirà il varco.
si potrà andare a Petra?, è la domanda più comune a proposito
della pace con il regno confinante. Alla tv israeliana già si vede
il sorriso del beduino che gestisce il chiosco di bibite sotto le
rovine, e si spertica in espressioni di buona accoglienza: benvenuti
saranno gli israeliani, speriamo che il confine sia subito aperto,
tutti ci stiamo preparando alla nuova marea turistica, sappiamo che
gli israeliani sono viaggiatori nati. Sì , è vero, i prezzi qui sono
già molto cresciuti, sorride contento il barista beduino. Forse
appartiene alla tribù di Atala, da sempre incaricato dalla dinastia
regale di guardare a vista la Roccia Rossa. È la stessa tribù che
si appostava sui sentieri di sabbia e uccideva negli Anni Cinquanta i
giovani israeliani. A Tel Aviv si tengono incontri turistici con
filmati adatti a preparare le masse a invadere il silenzio dei
nabatei. Le agenzie di viaggio contano le camere d’albergo in loco,
sistemano i pullman: a Petra, a Petra! per sotterrare un altro mito
dell’epopea dell’Israele dei pionieri. Al chilometro 101 della strada
per Eilat, al Sud estremo d’Israele, c’è un sasso:
per Petra, proclama spudorato, incurante del confine poco distante,
all’imbocco del wadi. Il sasso l’ha messo Kushi Rimon, uno dei
viaggiatori di Petra che è tornato vivo. Rimon è lui stesso un
monumento ai sopravvissuti e ai morti del Grande Viaggio: nel punto
da cui, caduto il sole nella sabbia, si partiva, ha stabilito un
commercio di bibite e panini, intorno zampettano le galline, tutto è
giallo sabbia e blu cielo. Kushi andò su una jeep rubata agli
americani, ed è tornato vivo perché era un paracadutista, lui, un
avventuriero moderno e non un ragazzo con la testa piena di sogni del
Palmach, il primo esercito di difesa israeliano, un sognatore con in
tasca un libro di poesie di Walt Whitman, ai piedi i sandali, in
testa un cappello rosso della Marina. Così per esempio partì Ram
Pragai, a 19 anni. Figlio di polacchi fuggiti dallo Shtetl, aveva
compiuto in una generazione un salto genetico e mentale pauroso, che
forse segnò il suo destino. Alto, con la barba bionda, atletico, era
identico per cultura e scelte agli altri che morirono poi. Gente che
pianse quando morì il poeta Berl Katznelson, gente che voleva essere
lupo del deserto, scrittore, che disegnava le donne truccate, che non
parlava mai di sesso, che metteva tutto il suo erotismo nel camminare
senza scarpe nel deserto come i beduini. Gente che ai beduini voleva
far concorrenza, e che soprattutto si mise invece in gara con i
propri genitori, i pionieri fondatori dello Stato. Quando la guerra
del ‘48 finì , Ben Gurion dichiarò concluso il periodo del grande
eroismo. Ora bisognava costruire lo Stato, chiudere anche
psicologicamente con le organizzazioni clandestine anti-inglesi e
anti-arabe, mettersi nello spirito di chi organizza scuole, ospedali,
uffici, linee tramviarie. Lo Stato, insomma. Ai giovani veniva negato
il destino di eroismo di pochi anni prima; ai palmachnich che avevano
partecipato alla gloria della fondazione, si presentava adesso un
destino di normalità , assai difficile da accettare. Il settimanale
Ha Olam Aze nel 1953 organizzò un pubblico processo ai giovani, che
alla fine risultò un coro di condanna per la miseria morale e
psicologica della loro vita; più avanti il Palmach si riunì in un
congresso postumo al kibbuz Givat Brenner dove tutti quei giovani in
camicia bianca, ragazzi e ragazze furono assai contenti di trovarsi
insieme ma anche si dissero parole di disorientamento, parole di chi
è incapace di raffigurarsi il futuro. La Polonia, la Russia,
l’Europa intera, le terre di provenienza erano ormai lontanissime; la
rivolta del ghetto di Varsavia era per loro lontana come quella di
Bar Kochba contro i dominatori romani. L’epos europeo era morto per
sempre dentro i loro cuori. Petra fu l’anello di congiunzione fra
Varsavia e il sionismo. Tutto quello che di romantico e positivo quei
giovani riuscivano ad esprimere era adesso un desiderio di terra
madre, una voglia quasi erotica, una fame di natura, identificata con
la conquista di una nuova identità . L’ebreo che prima era stato
nella diaspora, adesso voleva annusare tutti i venti e farli suoi,
calcare tutte le polveri, possedere il deserto, morire morso da un
serpente come Il Piccolo Principe di Saint-Exupery, essere cananita
più che ebreo, essere forse un ebreo beduino, possedere la sabbia
come si possiede una donna. Petra rappresentò tutto questo. Arik
Meger era un membro del kibbuz En Iron, di genitori europei, ma nato
in Israele. Per farsi raccontare tutto su Petra, andò nottetempo in
via Ossishkin 56 a Tel Aviv, a casa dello scrittore Zeev Vilnai,
l’autore di un libro sui nabatei. Suonò il campanello con quattro
amici:
poi Vilnai - e lui lo giurò , a parte che gli dessi ogni possibile
dettaglio. Io ci cascai. Arik partì di notte con Miriam Munderel,
Yacov Kelek, Gila Ben Yacov, Eitan Mintz: tutti ragazzi, ufficiali
del Palmach e gente di kibbuz. I loro corpi furono restituiti
trapassati dai proiettili giordani il 31 agosto del ‘53. Uno di loro
era tutto nero, senza più peli né capelli. Forse un serpente lo
aveva morso, forse allora il gruppo aveva cercato aiuto scoprendosi,
e quindi era avvenuta la strage. Poi fu la volta di Dror Levy di
Hertzlya; il suo compagno Dimitri Berlmen che è tornato vivo dal
viaggio non parlò mai; ha raccontato solo che l’agguato avvenne
sulla via del ritorno. Sempre gli israeliani furono attaccati mentre
rientravano. Prendeva infatti tempo ai beduini identificare il
percorso dei giovani che marciavano solo di notte, dormivano di
giorno nelle grotte, sapevano come evitare di lasciar tracce.
portò solo pane e carote, ha raccontato il padre di Arik Meger. Ram
Pragai era un soldato agli ordini del generale Arik Sharon. Sharon,
quando il corpo del ragazzo fu restituito, bussò alla porta dei
genitori di Ram a Tel Aviv, entrò , buttò un fucile sul tavolo:
so dov’è . , gli chiese il padre di Ram, un piccolo polacco.
primo viaggiatore per Petra era stato un mitico uomo del Palmach, un
ufficiale che era divenuto tale senza mai andare alla scuola
ufficiali, un eroe la cui sola presenza confortava gli ebrei a
compiere le imprese più difficili, a soffrire senza parlare, a
pensare miracoli e poi a compierli. Il suo nome è Meir Ar Zion. Il 1
maggio del ‘53 con una donna, Rachel Savorai, prese la strada per
Petra, ne godè la bellezza, rimase per quattro notti in Giordania e
tornò indietro. Più avanti però sua sorella volle tentare la
stessa strada, e fu uccisa. Ar Zion allora prese il fucile, imboccò
il vecchio cammino del wadi, e vendicò la sorella. Ora vive solo
sulla cima di una montagna, coltivando la sua propria terra e non
parla più con nessuno, chiuso dentro il mito di se stesso e di
Petra. Nel ‘56 la guerra del Sinai estese l’idea di confine molto
più a Sud, strappò l’attenzione da Petra, l’amore pagano per il
deserto trovò grandi spazi nel Sinai. Nel ‘57 un carro attaccato a
un paio di cavalli giordani ricondusse dentro i confini i corpi di
Amiram Shai e di Mordechai Tubi, altri due ragazzi di vent’anni. I
più apprezzati ufficiali dell’esercito tennero allora discorsi
pubblici contro Petra; Shimon Peres proibì la canzone di Levy dopo
averla sentita al Club del Teatro di Tel Aviv e aver scrutato le
facce estatiche dei giovani ascoltatori. La radio non trasmise più
una parola sull’argomento, e chi incitava ad andare a Petra rischiava
una denuncia penale. Ben Gurion parlò del fenomeno in Parlamento
condannandolo per sempre. Tuttavia Kushi nel suo chiosco ha seguitato
per tutti questi anni a ricevere visite di ragazzi che volevano
informazioni sulla strada da fare. Nel ‘72 una trasmissione della
radio di Zahal, l’emittente dell’esercito, registrò una telefonata
piangente:
chiedetemi perché ne parlo adesso. Nessuna Roccia Rossa del mondo ha
diritto di inghiottire vite umane. Subito dopo l’abbraccio fra re
Hussein e Rabin la figlia del cantante Arik Levy, Noah, ha chiesto un
permesso speciale per andare in visita a Petra. Le è stato
accordato. Com’è Petra oggi, le hanno chiesto i giornalisti? È
bella, ha risposto Noah. E che altro? Mah, è davvero bella. Vale la
pena una visita turistica. Sarà bello poter viaggiare oltre i
confini, per terra, senza dover per forza montare su un aereo per
godere della bellezza del mondo. Questo forse è il pensiero
cosciente dei giovani israeliani. E tuttavia quell’abbraccio fra
uomini di Stato subito ha voluto significare sopra ogni altra cosa,
qui in Israele, ancora una volta . Quel seme dell’avventura,
gettato dai primi sionisti all’inizio del secolo, seguita a gemere
difficili, forse ormai impossibili germogli. Fiamma Nirenstein