DALLA PRIMA PAGINA Il bus, una scultura di morte e sangue
lunedì 26 febbraio 1996 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME LE cinque strade che convergono sull'epicentro della
tragedia giungono da dentro il cuore del centro storico; dai
quartieri religiosi (a un passo si trova Mea Sharim, la zona degli
ultrareligiosi); dai Territori occupati, da Ramallah che è la
capitale della forza palestinese nella West Bank; dall'autostrada Tel
Aviv-Gerusalemme, che è l'unico collegamento della capitale con il
resto del Paese. E per arrivarci si passa davanti a Binianei Huma, il
centro dei congressi, e davanti al ministero degli Esteri. Alle sette
meno venti, proprio sotto la , la sede della televisione, un
palazzone moderno dove si trovano tutti gli studi tv, dal secondo
canale israeliano alla Cnn, lo scoppio. Uno scoppio immane, dentro il
cuore della città vecchia e nuova, religiosa e laica, araba e
israeliana. Lo scoppio forse più violento che si sia mai sentito in
Israele, dei tanti attentati che Hamas ha messo a segno negli autobus
pieni di cittadini che vanno al lavoro o a scuola nelle prime ore del
mattino. Brandelli di essere umano sono volati fino alle finestre del
quarto piano. Fino sulle cime degli alberi. Dell'autobus, che è
stato tagliato a metà in orizzontale, non resta praticamente nulla.
La sua forma, lo vede stupefatto chiunque giunga nella zona, non è
più quella di un veicolo. È una scultura d'acciaio in onore della
morte, sita a lato della via; dentro non restano feriti, né
cadaveri. Dentro non resta più nulla, solo macchie di colore nero e
rosso. I morti sono disintegrati. I feriti sono i passanti o i
passeggeri delle automobili che si trovavano vicini al numero 18 al
momento dell'esplosione. Corrono in aiuto i religiosi dai quartieri
vicini. La televisione, la polizia, le ambulanze, tutto è in centro,
a un passo; in un attimo le sirene urlano tutte insieme. Stavolta il
lavoro della compagnia di volontari con i riccioli laterali, i guanti
di plastica, e un sacco in mano, è più lungo e più minuzioso del
solito. Arrivando da Tel Aviv, una volta superato il blocco del
traffico (che però , secondo l'ossessione israeliana del ripristino
immediato della vita normale, viene tolto a tempo di record), si vede
per primo un uomo dalla lunga barba appollaiato in cima a un albero.
Con due dita raccoglie qualcosa di piccolo e di rosso; e ancora
qualcosa. Per terra, sul selciato che i pellegrini di tutto il mondo
toccano con gioia quando arrivano alla Città Santa alle tre
religioni monoteiste, una scarpa da tennis di misura piccola, libri,
quaderni, borse di soldati e di scolari. Macchie di sangue, altri
reperti umani. La popolazione di Gerusalemme di nuovo si sveglia
all'incubo, dopo aver sognato la pace. Soldati, volontari di ogni
genere, religiosi nerovestiti, arrivano in aiuto di corsa. Si innalza
disperato il pianto del popolo gerosolimitano. Le famiglie cominciano
ad arrivare. Shimon Peres, che sopraggiunge sul luogo dell'attentato,
viene accolto da qualche grido di protesta, ma è poca cosa in
confronto alle urla di dolore. Stavolta, anche se siamo in piena
campagna elettorale, l'odio politico non prende il sopravvento.
Persino il capo dell'opposizione, Beniamino Netanyahu, invita a non
usare l'attentato come arma politica. Gli uomini della polizia si
spostano passo passo di concerto con i gruppetti dell'opposizione che
gridano oltre le transenne la loro domanda di sempre: dov'è la pace,
ma quale pace? Ad Ashkelon, alle sette e trentacinque, un gruppo di
soldati che nel fine settimana ha visitato la famiglia è alla
fermata dell'autobus in un paesaggio altrettanto israeliano quanto
quello della montagna di Gerusalemme, ma completamente diverso. È il
caldo, laico paesaggio industriale della costa, ornato di palme e di
grattacieli. Le navi da carico dal porto poco lontano lanciano
segnali; il muggito del traffico dell'autostrada che taglia il Paese
da Nord a Sud è interrotto dall'esplosione. Un terrorista si fa
saltare per aria in mezzo alla folla dei giovani che chiedono un
passaggio. Una ragazza muore sul colpo. Un uomo viene scaraventato di
testa nel vetro posteriore di una macchina. Un passante indicandone i
brandelli esclama: ecco la sua carne, la carne di un ebreo. Ashkelon
e Gerusalemme sono così diverse, l'una in pieno sviluppo, tutta
nuova lungo il Mar Mediterraneo, costruita di grandi edifici abitati
da lavoratori per la massima parte di origine sefardita. Sono le
undici e mezzo quando già un carro-attrezzi sposta, con l'aiuto di
una grande gru, la carcassa dell'autobus numero 18. Il 18 è un
autobus popolare quant'altri mai, che taglia tutta la città da Est a
Ovest arrivando da un quartiere popolare fino al Museo dell'Olocausto
Yad Va Shem e alla tomba di Rabin sul monte Herzl, ma soprattutto
attraversando la zona dello Shuch, il mercato di frutta e di carne.
Più tardi nella mattina quell'autobus sarebbe stato pieno di
vecchietti ashkenaziti che escono di casa in pantofole per andare a
spendere i pochi sheqel che hanno in tasca proprio a quel mercato.
Ora però , di mattina presto, era tutto pieno di ragazzi, studenti e
soldati. I loro nomi vengono comunicati al pubblico solo molto tardi
di sera. Israele non rivela mai il numero dei morti fino a che tutte
le famiglie non siano avvertite. Le regole del lutto sono qui molto
precise e determinate. Ma sin dalla mattina si dice, e purtroppo poi
risulta vero, che uno dei giornalisti più famosi d'Israele, Nahum
Barnea, la colonna politica del primo quotidiano d'Israele
Aharonot, che era stato mandato di corsa a lo scoppio, vi
ha perso il figlio Ionatan, di vent'anni. Ancora una volta la
maledizione della morte dei giovani pesa sul Paese. Come in guerra,
sono tutti fra i sedici e i vent'anni i morti di cui l'annunciatore
tv, soffocando il pianto, rivela i nomi. L'autobus viene rimosso, il
traffico ripristinato rapidamente. A ripassare sul selciato sono per
primi proprio gli autobus di linea, pieni come sempre. Il mercato
ricomincia a funzionare. Da Tel Aviv arrivano i soliti pendolari. Per
quanto sia crudele, gli uomini dei soccorsi vanno a rifocillarsi nei
piccoli ristoranti del mercato. Se qualche cameriere è palestinese,
nessuno ci fa caso. La vita prende il sopravvento. Shimon Peres è
solo per la prima volta davanti al Paese che gli chiede: che razza di
pace è mai questa?, e con voce quieta incontra i giornalisti
nell'ufficio del primo ministro.
Rabin era vivo - sulla via della pace. Peres ieri ha subito risposto
positivamente all'ansiosa domanda del mondo intero, quella sul
processo di pace. Prima aveva cercato rassicurazione nelle telefonate
con Arafat e nei messaggi solidali di re Hussein di Giordania e di
Mubarak. Ma già , pure in un tono che il dolore acquieta, si levano
legittime le domande sulla volontà e sulla capacità di Arafat di
aiutare la pace sconfiggendo Hamas una volta per tutte. Gli attentati
che hanno segnato l'anniversario della strage di Hebron e
l'eliminazione di Yihia Ayash, l'Ingegnere, erano stati più volte
annunciati. Già , Muhamed Adif, prima numero due della lotta armata,
e ora il suo capo, aveva promesso la strage. Giovedì scorso una
grande manifestazione palestinese aveva, con macabro tempismo,
prefigurato in effigie e con grida di tripudio di una grande folla
l'esplosione di un autobus seguita da un corteo di
biancovestiti. Gli israeliani ora si chiedono e chiedono a Peres come
mai Arafat, il partner della pace, il leader pragmatico che sa
persino accettare (come si vede dai piani segreti appena venuti alla
luce) che i coloni conservino anche nell'assetto definitivo i loro
insediamenti, consenta ai giovani palestinesi di mantenere un doppio
registro ideologico; permetta che conservino come modello i
terroristi suicidi di Hamas; si limiti a modeste azioni di polizia
contro l'organizzazione che pure gli è nemica mortale, non le
infligga un colpo definitivo. Fiamma Nirenstein